Emilio De Marchi
Amore e nient'altro
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La nota introduttiva e il romanzo breve "Amore e nient'altro" sono tratti da un articolo di Pietro Dettamanti pubblicato sul N. 2 - Aprile-Giugno 1995 della rivista "Archivi di Lecco", edita dalla Casa Editrice G. Stefanoni - Lecco.

Tra la nota introduttiva e il testo del romanzo ho inserito un mio piccolo contributo sulle ricerche fatte riguardo la tomba di Emilio De Marchi.

 

 

in copertina una riproduzione fotografica della "Sagra di San Michele", tela ad olio di Casimiro Radice (1834-1908)


Nato a Milano nel 1851, Emilio De Marchi trascorse quasi tutta la sua vita tra l'insegnamento e l'incarico di segretario dell'Accademia scientifico-letteraria di Milano. Tra le sue opere più famose ricordiamo i romanzi: Demetrio Pianelli, Il Cappello del prete, Arabella. Fu anche autore di scritti critici, di opere educative, di drammi e di poesie. Morì a Milano nel 1901.

«Inaugurazione del monumento ad Alessandro Manzoni in Lecco, l'11 ottobre 1891. (Disegno dal vero di A. Bonamore)» - 1891. L'incisione fu pubblicata su «Il Secolo Illustrato della Domenica» del 18 ottobre 1891.
 

Nota introduttiva
Il 29 settembre 1885 su «Il San Michele», numero unico pubblicato a Lecco a favore del fondo istituito per l'erezione del monumento ad Alessandro Manzoni, compariva un breve racconto di Emilio De Marchi dal titolo "Amore e nient'altro".
Il racconto presentava, tratteggiate con bonaria ironia, alcune figure di quel mondo della piccola borghesia cittadina, di cui il De Marchi seppe essere, nelle sue opere migliori, attento e sensibile interprete. Faceva da sfondo alla vicenda la Sagra di San Michele che ogni anno alla fine di settembre, in occasione della festività del santo, vedeva convergere sulle pendici del Monte Barro una variopinta folla proveniente dal lecchese e da tutta la Brianza. Il luogo, abitualmente deserto, diventava allora, come ricordava lo Stoppani in un articolo apparso su quello stesso foglio, «un tripudio di genti, un convegno festivo più che nessun altro dei molti luoghi consacrati alle sagre in seno ai monti lombardi».
Amore e nient'altro fu successivamente ripubblicato da Giansiro Ferrata nell'edizione delle opere del De Marchi da lui curata (cfr. Emilio De Marchi, Varietà e inediti, Milano, Mondadori, 1965, t. I., pp. 392-402), e da ultimo da Franco Brevini nel volume Emilio De Marchi, Novelle, Milano, Mondadori, 1992, pp. 510-519.
Pressoché nulla è stata l'attenzione della critica verso questo racconto: recentemente gli ha dedicato alcune brevi note Alessandra Briganti nel volume Introduzione a De Marchi (Bari. Laterza, 1992, p. 93) dove definisce Amore e nient'altro «bozzetto sentimentale condito da una moderata dose di umorismo», «affettuosa parodia di un idillio 'alpestre' collocato al tempo, quasi favoloso, di una semplice e quasi casalinga Italia preunitaria», osservando come «la critica nei confronti dei 'tempi nuovi'» – così frequente nello scrittore lombardo – «appare, in questo racconto solo in superficie e si esprime attraverso qualche rapida notazione del narratore».
Amore e nient'altro assume certamente un rilievo secondario nell'ambito dell'opera del De Marchi, inserendosi in quella serie numerosa di bozzetti e di brevi racconti che lo scrittore venne pubblicando su vari fogli e riviste nel corso degli anni '80. Si trattava di una produzione dai risultati artisticamente disuguali che si rivolgeva ad un largo pubblico e nella quale si potevano trovare abbozzati alcuni di quei temi e di quelle figure che lo scrittore svilupperà in forma più completa nei romanzi degli anni '90.
Pur con queste limitazioni ci sembra non privo di interesse riproporre il racconto, anche come testimonianza dei profondi legami che unirono il De Marchi ai luoghi del lecchese che egli ben conobbe e amò. Si possono ricordare in particolare. i suoi soggiorni a Maggianico, allora vivace ritrovo di artisti e letterati della Scapigliatura milanese: qui egli trascorse numerosi periodi di villeggiatura in quella villa Martelli, di proprietà della famiglia della moglie, che costituisce una delle più tipiche testimonianze del gusto dell'epoca.


Maggianico, Villa Martelli
In questa villa, tipica testimonianza del gusto dell'epoca, il De Marchi trascorse numerosi periodi di villeggiatura.

Aggiungiamo che nella cappella di famiglia dei Martelli, nel cimitero di Maggianico, si può osservare una lapide con il nome di Emilio De Marchi e l'indicazione degli anni di nascita e di morte, posta accanto alle lapidi della moglie Lina, morta nel 1920, e della figlia Cesarina, morta quindicenne nel 1897. Nessuno dei tre personaggi è però sepolto a Maggianico: lo scrittore, morto nel 1901, riposa infatti, insieme con la moglie e la figlia, nel cimitero di Paderno Dugnano.
PIETRO DETTAMANTI


Dove è sepolto Emilio De Marchi ?

Dalle mie ricerche sul web ho notato che ci sono interpretazioni diverse su dove sia sepolto realmente Emilio De Marchi.

Su Wikipedia avevano scritto:
"Morto a Milano il 6 novembre 1901, è sepolto presso il Cimitero di Maggianico di Lecco, nella tomba di famiglia della moglie."
Questa interpretazione è stata riportata da molti nelle pagine con la biografia di Emilio De Marchi... non credo abbiano approfondito più di tanto ma solo fatto la solita operazione "copia/incolla". Tutte le pagine che ho trovato sono perfettamente uguali, parola per parola... quindi impossibile che provengano da altre fonti se non da Wikipedia.

Ora Wikipedia ha corretto l'informazione e scrive:
"Morto a Milano il 6 febbraio 1901, è sepolto presso il cimitero di Paderno."

Su un interessante sito di "milanesia", www.milanesiabella.it  ci sono le foto della tomba dello scrittore a Paderno Dugnano. La curatrice del sito, la Sig.ra Angela Turola Peirone mi ha invitato a ricercare informazioni dato che abito a pochissima distanza dal cimitero di Maggianico. Dopo aver chiesto in giro e in Comune senza trovare una risposta definitiva, mi sono convinto che non puo' essere una tomba quella posta nella cappella della famiglia Martelli nel cimitero di Maggianico perché lo spessore della parete è molto piccolo e mi sembra più logico sia una lapide. Forse la soluzione potrebbe essere nell'interpretazione della scritta sulla facciata della cappella: "domus secunda donec tertia". Ma dall'ultima volta che ho studiato latino  sono passati più di quarant'anni...

In conclusione, concordo con quanto scrive l'autore dell'articolo riportato sopra (Pietro Dettamanti, che sono convinto si sia informato molto bene su De Marchi), Emilio De Marchi è sepolto a Paderno Dugnano.
(N.B.)

 


La conferma definitiva mi è stata fornita da Luciano Bissoli (che ringrazio per avermi mandato la foto della tomba di Emilio De Marchi a Paderno Dugnano, che vedete sopra) che è il curatore, unitamente all'Associazione La Compagnia del Pilastrello, della memoria e della tomba dello scrittore.


AMORE E NIENT'ALTRO

Il giorno di S. Michele, Ubaldino Ubaldi, applicato di terza classe alla pubblica biblioteca di Milano (parlo di cose accadute prima del quarantotto) era stato invitato a pranzo da un suo zio, curato d'uno dei tanti paeselli che fanno con Lecco una grande famiglia nel verde declivio del territorio. Ci sarebbero stati altri preti a tavola e il giovinotto, che risparmiava volentieri qualche liruccia dello stipendio, fatta una piccola colazione la mattina, partí da Cernusco a piedi, e colla gamba lesta de' suoi ventitré anni era quasi giunto in vista del campanile di suo zio. Per strada incontrò molte brigate di contadini e di borghesucci che, coi panieri coperti da un tovagliolo e coi fiaschetti in tasca, andavano alla famosa Sagra di S. Michele: un luogo isolato sul monte, sulla destra dell'Adda, quasi nascosto dai castagni, dove ogni anno si fa un gran baccano in onore e gloria di chi pel primo spuntò le corna al diavolo. Ubaldino pensava proprio che di quella baldoria, che dura nei boschi fino a sole spento, il diavolo, dopo gli osti, è quello che guadagna di più; quando, alzando gli occhi, gli venne dato di vedere ciò che non avrebbe mai immaginato di trovare su quella strada, in quel momento. Il suo cuore cominciò a martellare, che pareva un maglio del ferro. Divenne rosso rosso... e correndo incontro a persone di sua conoscenza, esclamò: – Che bella combinazione! – Oh chi troviamo, il sor Ubaldi! – Stanno bene? – Bravo, bravi! – E la signora Adelaide? – il signor Gaetano? – Siamo a Malgrate in vacanza. – Malgrate, bene, bel sito, e... e... la signorina Fanny? –Sto benissimo, grazie – rispose una giovinetta assai graziosa, vestita d'un abito quasi bianco, a mazzetti di fiori, con in capo un cappello di paglia a tesa larghissima, sotto la quale la sua testina romantica pareva quella d'una santa in una splendida aureola. Voi avete già capito che il martellamento di cuore del signor Ubaldino non poteva essere né pel signor Gaetano. padre di numerosa figliuolanza, imp. reg. impiegato alla contabilità, né per la signora Adelaide sua legittima consorte, una brutta signora, cori una voce noiosa, e famosa per i suoi spropositi di lingua. C'erano altri ragazzi, lunghi, magri, colla bocca sempre aperta, che formavano (compreso il bimbo a balia) la rispettabile famiglia del signor Rag. Taglianetti, uomo d'ordine e ben veduto da' suoi superiori. Ubaldino aveva ballato l'inverno scorso con Fanny in casa della vedova De Simoni, una buona signora, famosa per combinare matrimoni. Fanny, oltre a ballar bene, sapeva suonare angelicamente l'arpa: non ci volle di più perché il nostro Ubaldino, che di tanto in tanto mandava dei versi al Cosmorama Pittorico e alla strenna Non ti scordar di me,  s'innamorasse di lei, come un antico bardo dell'Ercinia, della musa ispiratrice de' suoi carmi. Erano tempi in cui la parola idealismo aveva ancora un nobile significato. I giovani imparavano sui libri non la sfacciata corruzione dei nostri tempi, ma l'arte di abbellire e ingentilire le naturali passioni. Il nostro innamorato, già timidetto per natura, povero, inesperto, non aveva mai trovata l'occasione propizia di manifestare a Fanny la sua tenera devozione, e da otto mesi si consumava in una segreta contemplazione del suo ideale, perdendone il sonno e la speranza, sempre in paura di sé e della gente, non vedendo Fanny che una volta la settimana, quando essa ritornava dalla messa grande in compagnia della mamma. I parenti non erano ciechi da non capire l'imbarazzo di quel povero figliuolo; e poiché sapevano ch'egli era onesto, intelligente e ben avviato sulla carriera dei pubblici impieghi, non avrebbero avuta difficoltà a lasciare andar l'acqua per la sua china. Non fumava, non frequentava il caffè, non faceva della politica in quel tempo piú pericolosa d'adesso. Solo ch'egli si fosse fatto avanti un passo...
Ciò spiega la festosa accoglienza che gli fecero sulla strada, e spiega anche l'improvviso turbamento che provò il ragazzo nel vedersi davanti Fanny con quell'abitino a fiori, con quel cappellino di paglia bianca.
— Venga.. venga con noi — aveva detto il papà.
—Sarà la nostra guida —soggiunse Fannv.
— II nostro Automedonte — concluse la mamma, che aveva ricevuto, diceva lei, la sua bella educazione nel collegio delle monache a Cernusco Asinario.
Doveva dire di no? qual uomo innamorato non avrebbe colta al volo quella felice occasione di stare vicino a Vanny nella libertà e semplicità dei boschi e della campagna? Ubaldino non aveva mai sognato nelle più serene notti estive un più soave idillio. Cosí avvenne ch'egli si trovò su pel viottolo che mena a S. Michele, dove la compagnia fu costretta a distendersi in catena. Fanny alla testa, babbo alla coda, i ragazzi nel mezzo col paniere della merenda. Allo zio prete dimani avrebbe impastocchiata una bella scusa e amen.
Qualche volta, dove il sentiero piegava, i due giovani si trovarono soli fra due verdi e fresche siepi di robinie. Si guardarono in fretta,  arrossendo, con quella specie di paura che hanno sempre i ragazzi di ciò che non capiscono. L'amore più si studia e più diventa difficile, come la lingua cinese che non basta la vita di un uomo, dicono, a impararla tutta. Per avviare la conversazione cominciarono a discorrere del tempo, che pareva bello ma non era sicuro, parlarono di piante, di fiori, di sassi, di musica. Fanny colse un ramicello di robinia e, strappandone ad una ad una le foglie., tentò la sua sorte: Seule, mariée, religieuse... Essa doveva finir monaca.
- Che bella monachella! - si arrischiò a dire il nostro applicato di terza classe.
- Crede che io non. ne avrei la vocazione? - dimandò la bella sonatrice d'arpa.
– Lei metterebbe la discordia...-
– In convento?
– No. – Il giovine raccolse le sue forze. si fermò, voltò la faccia verso la siepe e balbettò con un leggiero singhiozzo della voce: –No. fra gli angeli!
La prima bomba era lanciata. Per un momento ne rimase intontito egli stesso.
– Ah Gesummaria! – strillò la signora Adelaide, disbrogliando la veste da un gruppo di spine che parevano, diceva lei, il labirinto delle Esperidi.
I due ragazzi andarono avanti un pochino in silenzio, raccolti su quella prima declinazione di lingua chinese, quando a torli d'imbarazzo accadde un fatto che merita di essere raccontato. Gigietto, che portava il paniere della merenda, volendo mostrare la sua agilità nell'arrampicarsi sopra un ciglione del monte, lasciò cadere il carico sull'erba. Il cestello si aperse: uscirono alcuni cartocci, alcuni panini. e tre o quattro pesche mature, presa la corsa sulla china, andarono a balzelloni a saltare in fondo ad un crepaccio del monte.
Questa perdita incoraggiò il signor Gaetano a dire a voce alta ciò che strada facendo aveva già susurrato con Adelaide. Voltosi dunque verso Ubaldino esclamò: – Fortuna che il signorino avrà già pranzato: altrimenti voi ci lasciate morire di fame.
Non si poteva piú pulitamente, mi pare, persuadere una brava persona a non far conto su quel paniere.
Ubaldino capí al volo e si affrettò a dire: – Per me, si figuri, ho già pranzato a casa...
Anche la signora Adelaide trasse un respiro, come se si sentisse togliere un peso dallo stomaco. Volendo, con quella delicatezza che è proprio soltanto delle donne, distruggere ogni altra cattiva impressione. soggiunse: – Anche noi abbiamo pranzato: questa non è che una merenduccia pei bimbi.
– Noi vogliamo la polenta – gridarono in coro i piú piccoli. –Non si è mangiata la minestra da basso colla scusa della polenta.
– Zitto là, razzapaglia. Che discorsi incivili son questi? – gridò il sor Gaetano che soffiava come un mantice. Il papà predicava sempre ai suoi figliuoli che la discrezione è la madre delle virtú, e che chi empie la pancia non ha tempo di riempire la testa. Fanny, come voleva la moda di quel tempo, si era tanto abituata a quel sistema ideale, che un canarino non avrebbe potuto mangiare meno di lei. Ma i maschi, quei rozzi maschiotti, era un orrore, con quella loro bocca sempre aperta come tanti merlotti.
Ho detto che i tempi erano piú ideali di questi, in cui ognuno bada piú a salvare la pancia per i fichi; e lo ripeto per spiegare come Ubaldino potesse passar sopra con tanta disinvoltura sul pranzo dello zio prete e rispondere per complimento la piú pericolosa bugia che un uomo possa dire prima di pranzo. Oltre alla compassione per quei poveri merlotti, lo trattenne dal mostrarsi goloso un sentimento di ritegno e di vergogna per rispetto a Fanny. Prima morire che farsi vedere da Fanny colla bocca piena, e colle mani unte di stufato! Gli sarebbe sembrato di rompere l'incanto di quel delizioso idillio recitato nelle fresche e verdi ombre dei castagni, se si fosse mostrato preoccupato d'una bassa questione di stomaco. In quanto all'appetito finse di non sentirlo. Se le cicale si nutrono di rugiada, perché non potrà l'uomo pascersi un giorno della sua felicità?
– L'ho offesa? – dimandò.
– Lei è poeta... e ai poeti si perdonano anche le bugie.
– Sono poeta quando le sono vicino.
– Uh caro – Fanny si raccolse in un piccolo sdegno pieno di grazia.
Ancora li copriva una piccola siepe di carpini, e poco lontano zampillava un filo d'acqua d'argento. Oh perché non avrebbe egli lanciata la gran parola che da quasi un anno gli rialzava nel cuore? Non osò; colse un garofano semplice. d'un rosso incerto, e l'offrí alla bella che se lo puntò sul petto.
A un tratto, nel voltarsi a riguardare la compagnia che si arrampicava a fatica su per il sentiero, l'occhio di Ubaldino corse al di là dell'Adda, e si fermò sul campanile bianco dello zio prete, che stette a contemplare con una specie di estasi. Presso al campanile fra dite cipressi rosseggiava il tetto della casa parrocchiale, sulla quale fumava un camino. Era giusto l'ora del pranzo. La colazione leggiera, la camminata, la salita, i ventitré anni e forse anche la felicità non potevano non dire qualche ragione. Già gli pareva d'udire nella caverna dello stomaco uno stiramento di muscoli che tendevano a fargli aprire le mandibole allo sbadiglio. Avrebbe pagato qualche cosa perché Fanny lo lasciasse sbadigliare una volta. Ma lo sbadigliare era peggio che il farsi vedere colla bocca piena e colle dita unte. Fece mentalmente il conto delle ore che gli potevano rimanere a discendere: pensò se era del caso di trovare una scusa, o di comperare qualche cosa sui banchi della festa. Ma giunti che furono in un praticello appartato, discosto ancora un quarto d'ora da S. Michele, il signor Gaetano dichiarò ch'egli non si sentiva piú in grado di andar su. La mamma, che odiava i villanzoni, fu del medesimo parere, e la brigata si accomodò sull'erba a consumare quei quattro cartocci e quei quattro pani della merenda, rinfrescati da una bottiglia di limonata che il papà, per precauzione, aveva portato in una tasca della giacca. Fanny non volle prendere che una fettuccia di panattone. Ubaldino per un momento sperò che gliene offrissero uno spicchio, che avrebbe o bene o male occupato un buco; ma non osarono offrirgliene, essendo cosí poco, cosí misurato alle bocche, e stantio di quattro dí. Per dispetto, dal praticello aprico si vedeva ancor meglio la casa dello zio prete, e la finestra del salotto dove una dozzina di preti, col fabbriciere e il sagrestano, stavano rosicchiando quelle sei care dozzine di tordi, regalati a Don Pietro dal curato di Morterone. Ubaldino non poteva a meno di riflettere sul suo caso, e di lasciarsi condurre a considerazioni affatto estranee alla sua felicità. A poco a poco la parola gli venne piú fredda e piú stanca sulle labbra. Alle tante dimande della signora Adelaide rispondeva stentatamente e non sempre a proposito. Forse gli scappò anche un piccolo sbadiglio, o si concentrò in una malinconia che non poteva essere interpretata nel suo vero significato. Pareva insomma ch'egli non sedesse davanti alla bella Fanny, all'idolo de' suoi sogni, che posava sull'erba fiorita del prato come una vezzosa amadriade, ma davanti a una scema, a un pezzo di legno, a una scopa. Se ne indispettiva egli stesso; ma sentiva che se avesse aperta la bocca avrebbe fatto peggio. Tutti, o bene o male, mangiavano intorno a lui: chi una fetta di stufato, chi una polpettina all'aglio che mandava una grande sfida al naso. A lui non rimaneva che contemplare il fumo vagolante dei tordi di suo zio alla distanza di due miglia e mezzo. Anche la felicità, come una statua d'oro, ha bisogno di un basamento per star ritta; e un uomo che ha fame non vale un sacco pieno di gusci.
Per colmo di sventura, il discorso cadde sulla poesia classica e romantica; questione che allora eccitava ancora gli spiriti e le menti dei letterati. La signora Adelaide, con quella faccia di merluzzo, giurava in nome di Apollo e di Vincenzo Monti. Fanny che leggeva piú volentieri le romanze, le ballate della nuova scuola, per carezzare la vanità del suo cavaliere sorse a dire: – Invece di stare a discutere, il signor Ubaldino dovrebbe recitarci quella sua bella poesia, tanto carina.
– Io poeta?
– Sí, sí, lo sappiamo. Ella ha pubblicato dei versi nel Cosmorama col nome di Solingo... Dica di no, provi. – Se Ubaldino avesse avuto il tempo di pranzare, quella dolce indiscrezione di Fanny sarebbe bastata a renderlo il piú felice dei mortali. Sí, era vero. Egli aveva pubblicato dei versi per una sonatrice d'arpa, con un nome falso, e in grande segretezza. Ma la musa aveva indovinato il timido poeta: e dava prova di conoscere non solo l'argomento, ma di saperne a memoria alcune strofe. Chi non avrebbe accettato con entusiasmo l'invito di ripetere innanzi alla vera musa quei versi, sgorgati in una notte dal cuore ancora eccitato e caldo d'un sincero affetto? Si parlava di arpe eolie in quei versi: di visioni vagolanti nelle argentee note che una candida mano (anzi diceva mano eburnea) fa vibrare nel silenzio notturno, e lunge
Dal solitario salice
Risponde l'usignol...
Fannv cominciò con una voce tutta dolcezza a dire pianino la prima strofa per fargli coraggio. Egli allora non poté dire di no e andò avanti un pezzetto, di malavoglia; poi chínò la testa sul petto, non ricordò più, fece un gesto fra il seccato e il dispettoso, e si volse a strappare colla mano i fili d'erba e di trifoglio. Quella gente era sí stupida e crudele da far declamare un pover'uomo che moriva di fame.
Fanny non volle di piú. Capí di essersi ingannata; capí che quei versi non erano per lei ma per un'altra. Capí che il signor Ubaldino si annoiava mortalmente della sua compagnia, e da fanciulla viziata andò a piangere nel seno della mamma. Lascio immaginare la confusione in cui si trovò Ubaldino. Non dico nulla dello stupore del signor Gaetano e delle paroline con cui la mamma pietosa cercò di consolare il suo «cuore», la sua «rondinella».
Allora il povero giovane si scosse, e con uno di quegli atti potenti di volontà che possono aiutare anche un morente a vivere un momento di piú, balzò in piedi, corse a prostrarsi sull'erba davanti a Fanny e giurò sull'onor suo che non aveva avuto intenzione di offenderla. Egli dubitava soltanto che quei suoi versi potessero piacere a tutti i presenti.
– Hai capito. sciocchina? è un atto di delicatezza per parte del signor Ubaldino. Egli vuole che papà glielo permetta.
– E papà non solo glielo permette – disse ridendo con gran beatitudine il signor Gaetano – ma glielo comanda.
Davanti a queste testimonianze di fiducia e d'affetto non valeva piú la scusa della fame. Il povero uomo in piedi, coi capelli al vento, declamò le sue dieciasette strofe rimate, che non gli erano mai parse tanto lunghe. Era già verso la fine dove diceva
Odo un soave zeffiro
Scherzar tra fronda e fronda...
quando scoppiò improvvisamente un rombo di tuono sopra la testa. Dietro la montagna faceva capolino l'orlo d'un nugolone nero e spaventoso. spinto da un vento di mezzodí. Presto, presto; prima che scoppi il temporale, la nostra brigata raccoglie le robe, e con quell'eccitazione che è propria di tutte le anime sensibili, si mettono a cercare la via piú breve per tornare a casa. Ubaldino, che aveva fatto il conto di andarsene presto, si trovò prigioniero nelle dolci braccia... della sora Adelaide, che piena di spavento fin sopra i capelli, lo supplicava a non abbandonarla nella discesa.
– Si figuri! – esclamò il disgraziato, come il sarto di Vercurago.
Fanny corre avanti col passo leggiero d'una capretta. Babbo e ragazzi la seguirono alla meglio. Ma in quanto alla signora Adelaide fu un altro paio di piedi. L'andare in giú le dava dolori acutissimi alla punta delle dita, e bisognava che si attaccasse a qualcuno, perché la vista non le serviva troppo bene. E poi quel tuono, quei lampi; quel vento le mettevano addosso tutte le convulsioni.
Si cominciò a discendere. Fu un viaggio lento, lungo, tormentoso: un vero viaggio verso l'inferno della fame, in cui il povero innamorato finí col perdere anche il lume degli occhi e a sognare fantasmi da sonnambulo e da ubbriaco. La testa dava tremendi picchi, la lingua si annodava, le intestina mandavano urli di bestia feroce. Fra il salire e il discendere e il declamare erano passate ormai altre tre ore, quante bastano a un prete di buona costituzione per digerire un pranzo «d'ufficio». In tutto questo tempo egli non aveva toccato che piante e sassi. Scendendo per un viottolo infossato sparso di ciottoloni, gli pareva che questi prendessero le piú strane figure. L'uno somigliava nel suo color gialliccio a un cacio fresco, l'altro nel suo color perso a una mortadella di Bologna. La fame irritava in quel povero stomaco tutti gli istinti erbivori e carnivori della classe dei mammiferi. Non poteva durare di piú.
Giunsero per fortuna presso un cascinale, e volle il caso che una porta fosse aperta, da dove poté vedere al di dentro un gran fuoco acceso, e sul fuoco un paiolo, e davanti al paiolo un uomo con un gran matterello in mano.
– Polenta! – ruggí la voce segreta della coscienza, con quel pazzo furore onde i compagni di Colombo salutarono la terra..
La strada era diventata piana. L'angustia del sentiero obbligava a camminare uno ad uno. Lasciò che l'amabile madre di Fanny andasse avanti sola ed ei si tenne un poco indietro, rallentò il passo, si nascose dietro il muro. In quella cadde il primo rovescio d'acqua che fu per la sora Adelaide e per tutti paglia accesa sotto i piedi. Ubaldino, rimasto solo, non fu tardo a lanciarsi cogli occhi fuori delle orbite in casa dei contadini, e senza pensare che la sua Fanny potesse affogare in quel diluvio, sedette al desco nel momento che scodellavano la polenta, gettò dei soldi sul banco, e vi si tuffò dentro (per dirla con qualche esagerazione) fino alle orecchie. Né si contentò di polenta. ma fece portare del latte, e dopo il latte dei raveggiuoli e del pan giallo, dolce, tenero, delizioso come il pan d'oro del paradiso. Alla tavola dello zio prete non avrebbe trovato dei piatti piú saporiti.
In quanto al digerire fu un altro conto. Fece dei sogni strani, agitati. confusi. in cui Fannv si confondeva col merluzzo, e l'arpa eolia con una polenta condita di rossignuoli.
Ma ciò che era scritto in cielo ebbe il suo felice compimento. Ubaldino e Fannv un bel giorno di primavera salivano ancora per il sentiero di S. Michele tenendosi per mano, sposi beati. Il tempo ha fatto il resto, e oggi che l'uno e l'altra cominciano a invecchiare, capiscono che una buona cioccolata la mattina, due piatti a tavola e una buona bottiglia di vin vecchio. non guastano l'amore, anzi lo mantengono vispo.

EMILIO DE MARCHI


Una curiosità:

  • pochi sanno che fu il primo scrittore italiano a scrivere un romanzo di genere noir, con il suo "Il Cappello del prete".


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