Nato a Milano nel 1851, Emilio De Marchi trascorse
quasi tutta la sua vita tra l'insegnamento e l'incarico di segretario
dell'Accademia scientifico-letteraria di Milano. Tra le sue opere
più famose ricordiamo i romanzi: Demetrio Pianelli,
Il Cappello del prete, Arabella.
Fu anche autore di scritti critici, di opere educative, di drammi e di
poesie. Morì a Milano nel 1901.
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«Inaugurazione del monumento ad
Alessandro Manzoni in Lecco, l'11 ottobre 1891. (Disegno dal vero di A.
Bonamore)» - 1891. L'incisione fu pubblicata su «Il
Secolo Illustrato della Domenica» del 18 ottobre 1891.
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Nota
introduttiva
Il 29 settembre 1885 su «Il
San Michele», numero unico pubblicato a Lecco a favore del
fondo istituito per l'erezione del monumento ad Alessandro Manzoni,
compariva un breve racconto di Emilio De Marchi dal titolo "Amore
e nient'altro".
Il racconto presentava, tratteggiate con bonaria ironia, alcune figure
di quel mondo della piccola borghesia cittadina, di cui il De Marchi
seppe essere, nelle sue opere migliori, attento e sensibile interprete.
Faceva da sfondo alla vicenda la Sagra di San Michele che ogni anno
alla fine di settembre, in occasione della festività del
santo, vedeva convergere sulle pendici del Monte Barro una variopinta
folla proveniente dal lecchese e da tutta la Brianza. Il luogo,
abitualmente deserto, diventava allora, come ricordava lo Stoppani in
un articolo apparso su quello stesso foglio, «un tripudio di
genti, un convegno festivo più che nessun altro dei molti
luoghi consacrati alle sagre in seno ai monti lombardi».
Amore e nient'altro fu successivamente
ripubblicato da Giansiro Ferrata nell'edizione delle opere del De
Marchi da lui curata (cfr. Emilio De Marchi,
Varietà e inediti, Milano, Mondadori, 1965, t. I.,
pp. 392-402), e da ultimo da Franco Brevini nel volume Emilio De
Marchi, Novelle, Milano, Mondadori, 1992, pp.
510-519.
Pressoché nulla è stata l'attenzione della
critica verso questo racconto: recentemente gli ha dedicato alcune
brevi note Alessandra Briganti nel volume
Introduzione a De Marchi (Bari. Laterza, 1992, p. 93) dove
definisce
Amore e nient'altro «bozzetto sentimentale condito
da una moderata dose di umorismo», «affettuosa
parodia di un idillio 'alpestre' collocato al tempo, quasi favoloso, di
una semplice e quasi casalinga Italia preunitaria»,
osservando come «la critica nei confronti dei 'tempi
nuovi'» – così frequente nello scrittore
lombardo – «appare, in questo racconto solo in
superficie e si esprime attraverso qualche rapida notazione del
narratore».
Amore e nient'altro assume certamente un
rilievo secondario nell'ambito dell'opera del De Marchi, inserendosi in
quella serie numerosa di bozzetti e di brevi racconti che lo scrittore
venne pubblicando su vari fogli e riviste nel corso degli anni '80. Si
trattava di una produzione dai risultati artisticamente disuguali che
si rivolgeva ad un largo pubblico e nella quale si potevano trovare
abbozzati alcuni di quei temi e di quelle figure che lo scrittore
svilupperà in forma più completa nei romanzi
degli anni '90.
Pur con queste limitazioni ci sembra non privo di interesse riproporre
il racconto, anche come testimonianza dei profondi legami che unirono
il De Marchi ai luoghi del lecchese che egli ben conobbe e
amò. Si possono ricordare in particolare. i suoi soggiorni a
Maggianico, allora vivace ritrovo di artisti e letterati della
Scapigliatura milanese: qui egli trascorse numerosi periodi di
villeggiatura in quella villa
Martelli, di proprietà
della famiglia della moglie, che costituisce una delle più
tipiche testimonianze del gusto dell'epoca.
Maggianico, Villa
Martelli
In questa villa, tipica testimonianza del gusto dell'epoca, il De
Marchi trascorse numerosi periodi di villeggiatura.
Aggiungiamo che nella cappella di famiglia dei
Martelli, nel cimitero di Maggianico, si può osservare una
lapide con il nome di Emilio De Marchi e l'indicazione degli anni di
nascita e di morte, posta accanto alle lapidi della moglie Lina, morta
nel 1920, e della figlia Cesarina, morta quindicenne nel 1897. Nessuno
dei tre personaggi è però sepolto a Maggianico:
lo scrittore, morto nel 1901, riposa infatti, insieme con la moglie e
la figlia, nel cimitero di Paderno Dugnano.
PIETRO
DETTAMANTI
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AMORE
E NIENT'ALTRO
Il giorno di S. Michele, Ubaldino Ubaldi,
applicato di terza classe alla pubblica biblioteca di Milano (parlo di
cose accadute prima del quarantotto) era stato invitato a pranzo da un
suo zio, curato d'uno dei tanti paeselli che fanno con Lecco una grande
famiglia nel verde declivio del territorio. Ci sarebbero stati altri
preti a tavola e il giovinotto, che risparmiava volentieri qualche
liruccia dello stipendio, fatta una piccola colazione la mattina,
partí da Cernusco a piedi, e colla gamba lesta de' suoi
ventitré anni era quasi giunto in vista del campanile di suo
zio. Per strada incontrò molte brigate di contadini e di
borghesucci che, coi panieri coperti da un tovagliolo e coi fiaschetti
in tasca, andavano alla famosa Sagra di S. Michele: un luogo isolato
sul monte, sulla destra dell'Adda, quasi nascosto dai castagni, dove
ogni anno si fa un gran baccano in onore e gloria di chi pel primo
spuntò le corna al diavolo. Ubaldino pensava proprio che di
quella baldoria, che dura nei boschi fino a sole spento, il diavolo,
dopo gli osti, è quello che guadagna di più;
quando, alzando gli occhi, gli venne dato di vedere ciò che
non avrebbe mai immaginato di trovare su quella strada, in quel
momento. Il suo cuore cominciò a martellare, che pareva un
maglio del ferro. Divenne rosso rosso... e correndo incontro a persone
di sua conoscenza, esclamò: – Che bella
combinazione! – Oh chi troviamo, il sor Ubaldi! –
Stanno bene? – Bravo, bravi! – E la signora
Adelaide? – il signor Gaetano? – Siamo a Malgrate
in vacanza. – Malgrate, bene, bel sito, e... e... la
signorina Fanny? –Sto benissimo, grazie – rispose
una giovinetta assai graziosa, vestita d'un abito quasi bianco, a
mazzetti di fiori, con in capo un cappello di paglia a tesa
larghissima, sotto la quale la sua testina romantica pareva quella
d'una santa in una splendida aureola. Voi avete già capito
che il martellamento di cuore del signor Ubaldino non poteva essere
né pel signor Gaetano. padre di numerosa figliuolanza, imp.
reg. impiegato alla contabilità, né per la
signora Adelaide sua legittima consorte, una brutta signora, cori una
voce noiosa, e famosa per i suoi spropositi di lingua. C'erano altri
ragazzi, lunghi, magri, colla bocca sempre aperta, che formavano
(compreso il bimbo a balia) la rispettabile famiglia del signor Rag.
Taglianetti, uomo d'ordine e ben veduto da' suoi superiori. Ubaldino
aveva ballato l'inverno scorso con Fanny in casa della vedova De
Simoni, una buona signora, famosa per combinare matrimoni. Fanny, oltre
a ballar bene, sapeva suonare angelicamente l'arpa: non ci volle di
più perché il nostro Ubaldino, che di tanto in
tanto mandava dei versi al Cosmorama Pittorico e alla strenna Non ti
scordar di me, s'innamorasse di lei, come un antico bardo
dell'Ercinia, della musa ispiratrice de' suoi carmi. Erano tempi in cui
la parola idealismo aveva ancora un nobile significato. I giovani
imparavano sui libri non la sfacciata corruzione dei nostri tempi, ma
l'arte di abbellire e ingentilire le naturali passioni. Il nostro
innamorato, già timidetto per natura, povero, inesperto, non
aveva mai trovata l'occasione propizia di manifestare a Fanny la sua
tenera devozione, e da otto mesi si consumava in una segreta
contemplazione del suo ideale, perdendone il sonno e la speranza,
sempre in paura di sé e della gente, non vedendo Fanny che
una volta la settimana, quando essa ritornava dalla messa grande in
compagnia della mamma. I parenti non erano ciechi da non capire
l'imbarazzo di quel povero figliuolo; e poiché sapevano
ch'egli era onesto, intelligente e ben avviato sulla carriera dei
pubblici impieghi, non avrebbero avuta difficoltà a lasciare
andar l'acqua per la sua china. Non fumava, non frequentava il
caffè, non faceva della politica in quel tempo
piú pericolosa d'adesso. Solo ch'egli si fosse fatto avanti
un passo...
Ciò spiega la festosa accoglienza che gli fecero sulla
strada, e spiega anche l'improvviso turbamento che provò il
ragazzo nel vedersi davanti Fanny con quell'abitino a fiori, con quel
cappellino di paglia bianca.
— Venga.. venga con noi — aveva detto il
papà.
—Sarà la nostra guida —soggiunse Fannv.
— II nostro Automedonte — concluse la mamma, che
aveva ricevuto, diceva lei, la sua bella educazione nel collegio delle
monache a Cernusco Asinario.
Doveva dire di no? qual uomo innamorato non avrebbe colta al volo
quella felice occasione di stare vicino a Vanny nella
libertà e semplicità dei boschi e della campagna?
Ubaldino non aveva mai sognato nelle più serene notti estive
un più soave idillio. Cosí avvenne ch'egli si
trovò su pel viottolo che mena a S. Michele, dove la
compagnia fu costretta a distendersi in catena. Fanny alla testa, babbo
alla coda, i ragazzi nel mezzo col paniere della merenda. Allo zio
prete dimani avrebbe impastocchiata una bella scusa e amen.
Qualche volta, dove il sentiero piegava, i due giovani si trovarono
soli fra due verdi e fresche siepi di robinie. Si guardarono in
fretta, arrossendo, con quella specie di paura che hanno
sempre i ragazzi di ciò che non capiscono. L'amore
più si studia e più diventa difficile, come la
lingua cinese che non basta la vita di un uomo, dicono, a impararla
tutta. Per avviare la conversazione cominciarono a discorrere del
tempo, che pareva bello ma non era sicuro, parlarono di piante, di
fiori, di sassi, di musica. Fanny colse un ramicello di robinia e,
strappandone ad una ad una le foglie., tentò la sua sorte:
Seule, mariée, religieuse... Essa doveva finir monaca.
- Che bella monachella! - si arrischiò a dire il nostro
applicato di terza classe.
- Crede che io non. ne avrei la vocazione? - dimandò la
bella sonatrice d'arpa.
– Lei metterebbe la discordia...-
– In convento?
– No. – Il giovine raccolse le sue forze. si
fermò, voltò la faccia verso la siepe e
balbettò con un leggiero singhiozzo della voce:
–No. fra gli angeli!
La prima bomba era lanciata. Per un momento ne rimase intontito egli
stesso.
– Ah Gesummaria! – strillò la signora
Adelaide, disbrogliando la veste da un gruppo di spine che parevano,
diceva lei, il labirinto delle Esperidi.
I due ragazzi andarono avanti un pochino in silenzio, raccolti su
quella prima declinazione di lingua chinese, quando a torli d'imbarazzo
accadde un fatto che merita di essere raccontato. Gigietto, che portava
il paniere della merenda, volendo mostrare la sua agilità
nell'arrampicarsi sopra un ciglione del monte, lasciò cadere
il carico sull'erba. Il cestello si aperse: uscirono alcuni cartocci,
alcuni panini. e tre o quattro pesche mature, presa la corsa sulla
china, andarono a balzelloni a saltare in fondo ad un crepaccio del
monte.
Questa perdita incoraggiò il signor Gaetano a dire a voce
alta ciò che strada facendo aveva già susurrato
con Adelaide. Voltosi dunque verso Ubaldino esclamò:
– Fortuna che il signorino avrà già
pranzato: altrimenti voi ci lasciate morire di fame.
Non si poteva piú pulitamente, mi pare, persuadere una brava
persona a non far conto su quel paniere.
Ubaldino capí al volo e si affrettò a dire:
– Per me, si figuri, ho già pranzato a casa...
Anche la signora Adelaide trasse un respiro, come se si sentisse
togliere un peso dallo stomaco. Volendo, con quella delicatezza che
è proprio soltanto delle donne, distruggere ogni altra
cattiva impressione. soggiunse: – Anche noi abbiamo pranzato:
questa non è che una merenduccia pei bimbi.
– Noi vogliamo la polenta – gridarono in coro i
piú piccoli. –Non si è mangiata la
minestra da basso colla scusa della polenta.
– Zitto là, razzapaglia. Che discorsi incivili son
questi? – gridò il sor Gaetano che soffiava come
un mantice. Il papà predicava sempre ai suoi figliuoli che
la discrezione è la madre delle virtú, e che chi
empie la pancia non ha tempo di riempire la testa. Fanny, come voleva
la moda di quel tempo, si era tanto abituata a quel sistema ideale, che
un canarino non avrebbe potuto mangiare meno di lei. Ma i maschi, quei
rozzi maschiotti, era un orrore, con quella loro bocca sempre aperta
come tanti merlotti.
Ho detto che i tempi erano piú ideali di questi, in cui
ognuno bada piú a salvare la pancia per i fichi; e lo ripeto
per spiegare come Ubaldino potesse passar sopra con tanta disinvoltura
sul pranzo dello zio prete e rispondere per complimento la
piú pericolosa bugia che un uomo possa dire prima di pranzo.
Oltre alla compassione per quei poveri merlotti, lo trattenne dal
mostrarsi goloso un sentimento di ritegno e di vergogna per rispetto a
Fanny. Prima morire che farsi vedere da Fanny colla bocca piena, e
colle mani unte di stufato! Gli sarebbe sembrato di rompere l'incanto
di quel delizioso idillio recitato nelle fresche e verdi ombre dei
castagni, se si fosse mostrato preoccupato d'una bassa questione di
stomaco. In quanto all'appetito finse di non sentirlo. Se le cicale si
nutrono di rugiada, perché non potrà l'uomo
pascersi un giorno della sua felicità?
– L'ho offesa? – dimandò.
– Lei è poeta... e ai poeti si perdonano anche le
bugie.
– Sono poeta quando le sono vicino.
– Uh caro – Fanny si raccolse in un piccolo sdegno
pieno di grazia.
Ancora li copriva una piccola siepe di carpini, e poco lontano
zampillava un filo d'acqua d'argento. Oh perché non avrebbe
egli lanciata la gran parola che da quasi un anno gli rialzava nel
cuore? Non osò; colse un garofano semplice. d'un rosso
incerto, e l'offrí alla bella che se lo puntò sul
petto.
A un tratto, nel voltarsi a riguardare la compagnia che si arrampicava
a fatica su per il sentiero, l'occhio di Ubaldino corse al di
là
dell'Adda, e si fermò sul campanile bianco dello zio prete,
che stette a contemplare con una specie di estasi. Presso al campanile
fra dite cipressi rosseggiava il tetto della casa parrocchiale, sulla
quale fumava un camino. Era giusto l'ora del pranzo. La colazione
leggiera, la camminata, la salita, i ventitré anni e forse
anche la felicità non potevano non dire qualche ragione.
Già gli pareva d'udire nella caverna dello stomaco uno
stiramento di muscoli che tendevano a fargli aprire le mandibole allo
sbadiglio. Avrebbe pagato qualche cosa perché Fanny lo
lasciasse sbadigliare una volta. Ma lo sbadigliare era peggio che il
farsi vedere colla bocca piena e colle dita unte. Fece mentalmente il
conto delle ore che gli potevano rimanere a discendere:
pensò se era del caso di trovare una scusa, o di comperare
qualche cosa sui banchi della festa. Ma giunti che furono in un
praticello appartato, discosto ancora un quarto d'ora da S. Michele, il
signor Gaetano dichiarò ch'egli non si sentiva
piú in grado di andar su. La mamma, che odiava i villanzoni,
fu del medesimo parere, e la brigata si accomodò sull'erba a
consumare quei quattro cartocci e quei quattro pani della merenda,
rinfrescati da una bottiglia di limonata che il papà, per
precauzione, aveva portato in una tasca della giacca. Fanny non volle
prendere che una fettuccia di panattone. Ubaldino per un momento
sperò che gliene offrissero uno spicchio, che avrebbe o bene
o male occupato un buco; ma non osarono offrirgliene, essendo
cosí poco, cosí misurato alle bocche, e stantio
di quattro dí. Per dispetto, dal praticello aprico si vedeva
ancor meglio la casa dello zio prete, e la finestra del salotto dove
una dozzina di preti, col fabbriciere e il sagrestano, stavano
rosicchiando quelle sei care dozzine di tordi, regalati a Don Pietro
dal curato di Morterone. Ubaldino non poteva a meno di riflettere sul
suo caso, e di lasciarsi condurre a considerazioni affatto estranee
alla sua felicità. A poco a poco la parola gli venne
piú fredda e piú stanca sulle labbra. Alle tante
dimande della signora Adelaide rispondeva stentatamente e non sempre a
proposito. Forse gli scappò anche un piccolo sbadiglio, o si
concentrò in una malinconia che non poteva essere
interpretata nel suo vero significato. Pareva insomma ch'egli non
sedesse davanti alla bella Fanny, all'idolo de' suoi sogni, che posava
sull'erba fiorita del prato come una vezzosa amadriade, ma davanti a
una scema, a un pezzo di legno, a una scopa. Se ne indispettiva egli
stesso; ma sentiva che se avesse aperta la bocca avrebbe fatto peggio.
Tutti, o bene o male, mangiavano intorno a lui: chi una fetta di
stufato, chi una polpettina all'aglio che mandava una grande sfida al
naso. A lui non rimaneva che contemplare il fumo vagolante dei tordi di
suo zio alla distanza di due miglia e mezzo. Anche la
felicità, come una statua d'oro, ha bisogno di un basamento
per star ritta; e un uomo che ha fame non vale un sacco pieno di gusci.
Per colmo di sventura, il discorso cadde sulla poesia classica e
romantica; questione che allora eccitava ancora gli spiriti e le menti
dei letterati. La signora Adelaide, con quella faccia di merluzzo,
giurava in nome di Apollo e di Vincenzo Monti. Fanny che leggeva
piú volentieri le romanze, le ballate della nuova scuola,
per carezzare la vanità del suo cavaliere sorse a dire:
– Invece di stare a discutere, il signor Ubaldino dovrebbe
recitarci quella sua bella poesia, tanto carina.
– Io poeta?
– Sí, sí, lo sappiamo. Ella ha
pubblicato dei versi nel Cosmorama col nome di Solingo... Dica di no,
provi. – Se Ubaldino avesse avuto il tempo di pranzare,
quella dolce indiscrezione di Fanny sarebbe bastata a renderlo il
piú felice dei mortali. Sí, era vero. Egli aveva
pubblicato dei versi per una sonatrice d'arpa, con un nome falso, e in
grande segretezza. Ma la musa aveva indovinato il timido poeta: e dava
prova di conoscere non solo l'argomento, ma di saperne a memoria alcune
strofe. Chi non avrebbe accettato con entusiasmo l'invito di ripetere
innanzi alla vera musa quei versi, sgorgati in una notte dal cuore
ancora eccitato e caldo d'un sincero affetto? Si parlava di arpe eolie
in quei versi: di visioni vagolanti nelle argentee note che una candida
mano (anzi diceva mano eburnea) fa vibrare nel silenzio notturno, e
lunge
Dal solitario salice
Risponde l'usignol...
Fannv cominciò con una voce tutta dolcezza a
dire pianino la prima strofa per fargli coraggio. Egli allora non
poté dire di no e andò avanti un pezzetto, di
malavoglia; poi chínò la testa sul petto, non
ricordò più, fece un gesto fra il seccato e il
dispettoso, e si volse a strappare colla mano i fili d'erba e di
trifoglio. Quella gente era sí stupida e crudele da far
declamare un pover'uomo che moriva di fame.
Fanny non volle di piú. Capí di essersi
ingannata; capí che quei versi non erano per lei ma per
un'altra. Capí che il signor Ubaldino si annoiava
mortalmente della sua compagnia, e da fanciulla viziata andò
a piangere nel seno della mamma. Lascio immaginare la confusione in cui
si trovò Ubaldino. Non dico nulla dello stupore del signor
Gaetano e delle paroline con cui la mamma pietosa cercò di
consolare il suo «cuore», la sua
«rondinella».
Allora il povero giovane si scosse, e con uno di quegli atti potenti di
volontà che possono aiutare anche un morente a vivere un
momento di piú, balzò in piedi, corse a
prostrarsi sull'erba davanti a Fanny e giurò sull'onor suo
che non aveva avuto intenzione di offenderla. Egli dubitava soltanto
che quei suoi versi potessero piacere a tutti i presenti.
– Hai capito. sciocchina? è un atto di delicatezza
per parte del signor Ubaldino. Egli vuole che papà glielo
permetta.
– E papà non solo glielo permette –
disse ridendo con gran beatitudine il signor Gaetano – ma
glielo comanda.
Davanti a queste testimonianze di fiducia e d'affetto non valeva
piú la scusa della fame. Il povero uomo in piedi, coi
capelli al
vento, declamò le sue dieciasette strofe rimate, che non gli
erano mai
parse tanto lunghe. Era già verso la fine dove diceva
Odo un soave zeffiro
Scherzar tra fronda e fronda...
quando scoppiò improvvisamente un rombo di
tuono sopra la testa. Dietro la montagna faceva capolino l'orlo d'un
nugolone nero e spaventoso. spinto da un vento di mezzodí.
Presto, presto; prima che scoppi il temporale, la nostra brigata
raccoglie le robe, e con quell'eccitazione che è propria di
tutte le anime sensibili, si mettono a cercare la via piú
breve per tornare a casa. Ubaldino, che aveva fatto il conto di
andarsene presto, si trovò prigioniero nelle dolci
braccia... della sora Adelaide, che piena di spavento fin sopra i
capelli, lo supplicava a non abbandonarla nella discesa.
– Si figuri! – esclamò il disgraziato,
come il sarto di Vercurago.
Fanny corre avanti col passo leggiero d'una capretta. Babbo e ragazzi
la seguirono alla meglio. Ma in quanto alla signora Adelaide fu un
altro paio di piedi. L'andare in giú le dava dolori
acutissimi alla punta delle dita, e bisognava che si attaccasse a
qualcuno, perché la vista non le serviva troppo bene. E poi
quel tuono, quei lampi; quel vento le mettevano addosso tutte le
convulsioni.
Si cominciò a discendere. Fu un viaggio lento, lungo,
tormentoso: un vero viaggio verso l'inferno della fame, in cui il
povero innamorato finí col perdere anche il lume degli occhi
e a sognare fantasmi da sonnambulo e da ubbriaco. La testa dava
tremendi picchi, la lingua si annodava, le intestina mandavano urli di
bestia feroce. Fra il salire e il discendere e il declamare erano
passate ormai altre tre ore, quante bastano a un prete di buona
costituzione per digerire un pranzo «d'ufficio». In
tutto questo tempo egli non aveva toccato che piante e sassi. Scendendo
per un viottolo infossato sparso di ciottoloni, gli pareva che questi
prendessero le piú strane figure. L'uno somigliava nel suo
color gialliccio a un cacio fresco, l'altro nel suo color perso a una
mortadella di Bologna. La fame irritava in quel povero stomaco tutti
gli istinti erbivori e carnivori della classe dei mammiferi. Non poteva
durare di piú.
Giunsero per fortuna presso un cascinale, e volle il caso che una porta
fosse aperta, da dove poté vedere al di dentro un gran fuoco
acceso, e sul fuoco un paiolo, e davanti al paiolo un uomo con un gran
matterello in mano.
– Polenta! – ruggí la voce segreta della
coscienza, con quel pazzo furore onde i compagni di Colombo salutarono
la terra..
La strada era diventata piana. L'angustia del sentiero obbligava a
camminare uno ad uno. Lasciò che l'amabile madre di Fanny
andasse avanti sola ed ei si tenne un poco indietro,
rallentò il passo, si nascose dietro il muro. In quella
cadde il primo rovescio d'acqua che fu per la sora Adelaide e per tutti
paglia accesa sotto i piedi. Ubaldino, rimasto solo, non fu tardo a
lanciarsi cogli occhi fuori delle orbite in casa dei contadini, e senza
pensare che la sua Fanny potesse affogare in quel diluvio, sedette al
desco nel momento che scodellavano la polenta, gettò dei
soldi sul banco, e vi si tuffò dentro (per dirla con qualche
esagerazione) fino alle orecchie. Né si contentò
di polenta. ma fece portare del latte, e dopo il latte dei raveggiuoli
e del pan giallo, dolce, tenero, delizioso come il pan d'oro del
paradiso. Alla tavola dello zio prete non avrebbe trovato dei piatti
piú saporiti.
In quanto al digerire fu un altro conto. Fece dei sogni strani,
agitati. confusi. in cui Fannv si confondeva col merluzzo, e l'arpa
eolia con una polenta condita di rossignuoli.
Ma ciò che era scritto in cielo ebbe il suo felice
compimento. Ubaldino e Fannv un bel giorno di primavera salivano ancora
per il sentiero di S. Michele tenendosi per mano, sposi beati. Il tempo
ha fatto il resto, e oggi che l'uno e l'altra cominciano a invecchiare,
capiscono che una buona cioccolata la mattina, due piatti a tavola e
una buona bottiglia di vin vecchio. non guastano l'amore, anzi lo
mantengono vispo.
EMILIO DE MARCHI
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