OPERE D'ARTE
A
LECCO
a cura dell'architetto Bruno
Bianchi
Edtrice
Guido Stefanoni - Lecco
PREFAZIONE
L 'idea di edire una
pubblicazione che
raggruppasse, nei limiti delle cose d’arte principali, le
opere pittoriche ed architettoniche della città e dei suoi
rioni, nacque dal desiderio di mettere a disposizione dello
studioso e dell’amatore, del profano e del turista, una
raccolta-guida che lo informasse di quanto, d’arte,
c’è in Lecco.
Così nacque: « Opere d’arte a Lecco
», che vuoi essere un
semplice contributo alla ricerca di quel patrimonio artistico
che, se pur in tono minore, anche a Lecco esiste.
Chi s’addentrasse maggiormente nella lettura di queste
pagine, troverà, per opera dell’architetto Bruno
Bianchi,
uomo sensibile e preparato in questo genere di cose, al quale
esprimiamo il nostro vivo ringraziamento, documentazioni e
notizie inerenti, di sicuro valore e di intelligente
interpretazione.
Questa
raccolta di fotografie (poiché non si tratta di un
libro) sembrava prendesse origine, ad un certo punto della sua
compilazione, esclusivamente dalla paura; dal timore che sotto la
spinta di un violento rinnovarsi nella struttura urbana e nel
costume stesso delle generazioni nuove, quanto andavo
documentando finisse con lo scomparire, prima ancora di essere
conosciuto.
Vale la pena che sia conosciuto?
Ecco: mi pare si possa dire che in nessuno sorge il problema
della conservazione di un quadro, perché un quadro, in
genere,
non disturba nessuno, non intralcia; il discorso è diverso
per
una architettura, di cui non si afferri più la ragione, il
perché del suo permanere in una certa posizione, in un
ambiente
urbano ormai in violenta opposizione. E allora ecco le città
e i
paesi mangiarsi gli antenati; ecco dapprima le marmette
sostituirsi alle beole sui pavimenti delle chiese, poi i portali
sfondare le loro cornici per diventare vetrine, ed infine le
strade storte raddrizzarsi a spese di qualche palazzetto e di
qualche chiesa settecentesca, nella convinzione che i problemi
dello sviluppo si risolvano sfondando le vecchie strutture e non
creandone delle nuove, fatte sulla scala dei nuovi problemi.
E’ vero che Lecco è tutt’ altro che
ricca di
capolavori; se parliamo di architettura, non c e nella nostra
città 1’ edificio di eccezionale rilievo per
antichità o
per importanza del suo organismo; la mancanza del pezzo di
eccezione mi sembra però abbia fatto trascurare quanto nel
suo
complesso, e sia pure in tono minore, costituisce invece un
patrimonio validissimo ed una lezione attuale per i suoi valori
di misura, di modestia e di perfetta ambientazione nel paesaggio
bellissimo dei nostri dintorni. Le chiese della nostra zona, per
esempio, sono sorte tutte sotto il segno di uno spontaneo
rispetto della natura e del colore di questo paesaggio. Lo si
constata tutt’ora là dove nessun intervento
incompetente e
insensibile ha ancora sovvertito questi rapporti, dove nessun
strato di terranova bianco o grigio-cenere ha ancora sostituito
il colore cotto delle nostre chiese seicentesche, dove nessuna
vampata di presunzione ha ancora manomesso le proporzioni dei
nostri campanili o alterato il riposo dei sagrati.
L’eccezionale bassorilievo romano a quattro fornici, unito a
qualche altro pezzo meno notevole, non bastano certo a costruire
il ritratto della Lecco romana, mentre per il periodo medioevale
un’ immagine assai più dettagliata può
essere fornita,
oltre che dagli avanzi delle fortificazioni, dagli affreschi che
si vanno scoprendo nella chiesa di 5. Nicolò. La
città-mercato,
chiusa nelle mura, posta sulla via obbligata della Valtellina,
vittima di un ponte che ad ogni guerra si trasformava in una
occasione di lotta e distruzione, non ricavò dalla sua
posizione
geografica se non incendi, assedi e bombarde.
Forse anche per questo le opere pittoriche di maggior pregio si
sono localizzate fuori della città murata: a Maggianico e a
Chiuso.
Il Rinascimento della pittura lombarda si era sparso un po’
ovunque per opera dei maestri maggiori la cui attività non
aveva
vincoli geografici e anche per opera dei meno noti, assai pronti
all’insegnamento delle grandi « botteghe » e
spesso non privi, come il pittore
degli affreschi di Chiuso, di una loro autonomia cromatica o
spaziale.
Dopo il gran polittico del Luini e dopo il trittico di Gaudenzio
Ferrari, la pittura post-rinascimentale è presente a Lecco
con
gli affreschi del soppresso convento di S. Giacomo, un grande
ciclo di «
maniera »salvato per
miracolo dalla
distruzione; con la pala di Acquate e con quella del Civerchio.
Quasi tutti gli edifici sacri della nostra zona sono stati
abbondantemente rimaneggiati o decorati o alterati e spesso
rifatti nel XVII° sec. Le visite pastorali di S. Carlo
costituirono anche un minuzioso esame di tutti questi edifici che
subirono così, dietro le precise indicazioni e talvolta le
ingiunzioni del Santo, notevoli restauri e sistemazioni.
Si può indicare come segno di transizione, prima della
generale
riforma barocca, la facciata di S. Andrea a Maggianico:
l’unica della nostra zona che presenti un protiro
cinquecentesco. Poi si apre la serie delle chiese barocche. Non
potremmo quasi immaginare certi tratti del nostro paesaggio,
senza l’ombra elegante e domestica dei loro portichetti. La
sobrietà o meglio l’accortezza del barocco
lombardo si
direbbe originata da una sensibilità attentissima e
calcolatrice, oltre che da uno spontaneo senso di misura; o forse
si spiega soprattutto pensando che quegli uomini avevano la
sensazione precisa del loro tempo e senza ambizioni sbagliate
creavano le loro chiese casalinghe come il nostro granoturco, il « carlone
»
che da S. Carlo avevano imparato a
coltivare e a mangiare per vincere le carestie.
Ben altra misura, rispetto al proprio tempo, sembrano aver
adottato i neoclassici. Alla ricerca di impostazioni volumetriche
monumentali che caratterizzò quasi ovunque la loro
attività non
corrispondeva una equivalente organizzazione sociale. Vennero
così spesso avviate mastodontiche strutture che poi non si
poterono terminare tanto la loro scala era lontana da quella
degli uomini di quel tempo, le loro proporzioni lontane da quelle
dei paesi stessi, delle loro piazze e del loro paesaggio. Il
mancato o parziale completamento di molte chiese rimane a
testimoniare questa perdita di contatto tra l’architettura e
la realtà sociale, economica e religiosa del proprio tempo.
Il nostro tempo invece, quello in cui navighiamo ora, cosa
esprime? Forse non è compito di queste note spingere la
descrizione o l’esame fino alla realtà odierna,
della quale
è meglio occuparsi più concretamente, che
osservarla con
inutile saggezza; caso mai può rientrare nel tema il
constatare
con quale atteggiamento noi oggi ci poniamo di fronte alle cose
fatte nei secoli passati: o ci prende un feticismo cieco e sordo
che sembra apprezzare solo le cose vecchie e non avvertire nel
lavoro dei contemporanei la continuazione di un discorso iniziato
molte generazioni or sono e mai perduto; oppure, vittime di
un’altra forma di cecità e di sordità,
ci sembra
impossibile risolvere i nostri problemi di oggi e impostare il
nostro discorso, senza la distruzione di tutti i « ruderi
»
che ci si parano davanti, quasi
incolpando loro dei nostri errori e delle nostre insufficienze.
E’ specialmente di fronte alle opere di architettura (nelle
quali inciampiamo ogni giorno) che si rivelano immediatamente
questi due atteggiamenti, ambedue rivelatori di una medesima
impotenza.
Il nostro operare di oggi è invece sostenuto dalla presenza
degli artefici, celebri o ignoti, che ci hanno preceduto e ne
continua il discorso, fatto con altri strumenti e assai
diversamente condizionato.
E’ solo per questo, per non perdere il filo di questo
discorso che sono nati questi appunti: mi sono sembrati utili
perchè la nostra città sapesse quanto conteneva
dentro di sè e
ne ricavasse un aiuto per garantirsi quel « supplément
d’àme che reclama Bergson per
dominare e dirigere
il nostro corpo smisuratamente cresciuto » (1).
Bruno
Bianchi
1) Gaston Bardet ((Le nouvel urbanisme) Paris,
1948.
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