Maggianico: la frazione Barco
BARCO
(A. GHISLANZONI) *
Questo articolo del Ghislanzoni fu scritto e pubblicato dai giornali nel settembre dell'anno 1880.
A tre chilometri da Lecco, lungo la linea ferroviaria per Bergamo, da uno strato di campagne fluttuanti, sorge il paesello di Barco. Le brulle e dirupate creste del Resegone qui si presentano di sbieco, affacciandosi tratto tratto ai poggi della montagna sovrastante al paese. Questa montagna si chiama il Magnodeno. Avete mai udito proferire un tal nome?...
Permettetemi di dubitarne. La celebrita' del Resegone ha vietato agli altri bei monti che costituiscono il pittoresco bacino, di prender posto nel sovvenire dei visitatori. Sono usurpazioni che sogliono avverarsi nel regno della natura come in quello dell'arte. Uno stupendo bozzetto rimane talvolta schiacciato dal colosso difforme, e in grazia della mole o dell'eccentrico formato, uno stupido volume prevale talvolta nell'ammirazione del mondo ad un ottimo libro dalle apparenze piu' modeste.
Barco, or fanno trent'anni, era un pacifico nido di coloni. Dal
Magnodeno, popolato di castagneti e di ulivi, fluivano copiose le acque
sui fertili campi coltivati con amore. Quattro o cinque famiglie di
agiati possidenti conducevano vita patriarcale in grembo alle nitide
case, schierate in prima linea sulla stradicciuola che mette alla
chiesa.
E la chiesa era bella, di semplice architettura, melanconica attraente.
Non d' altro orgogliosi che del bel campanile,
delle belle campane, del bel curatino che intonava le antifone in
chiave da tenore, quei terrazzani formavano una famiglia morigerata e
pacifica, inaccessibile alle seduzioni del progresso Su quest'ultimo
lembo di territorio lecchese venivano
ad ammortirsi nell'idillio i sussulti e le ansie di una grande
operosità industriale. Anche qui esistevano le filande, i
filatoi gli incannatoi e gli opifici congeneri; ma esistevano in
sembianza di intrusi. Le ruote giravano silenziosamente, le esalazioni
delle caldaje evaporavano inosservate; quelle intima agitazioni della
industria serica parevano circondarsi di mistero. Da quelle officine,
che avevano l' aspetto di chiostri uscivano a certe ore delle salmodie
religiose, le quali,
anziché turbare la profonda quiete del paesello, parevano
vestirla di un fascino melanconico e soave. Sotto l'aspetto morale,
Barco rappresentava, a que' tempi, una confraternita cristiana, votata
al lavoro, alle aspirazioni ascetiche ed alle preghiera.
Sullo scorcio dell' anno 1850, un colono assetato, curvandosi per bere
ad una sorgente smarrita fra gli arbusti, avvertì con disgusto
ché quell'acqua puzzava maledettamente di uova fracide.
Eureka! Acqua che puzza vuol dire acqua salubre - ed ecco il paesello
di Barco inaspettatamente
arricchito di una fonte minerale. Accorsero i medici, accorsero i
chimici. Il padre Nappi, in seguito ad un' analisi accuratissima,
constatò nella putrida linfa la presenza dello zolfo, della
magnesia e di altri sali efficacissimi. Il mio ottimo padre, medico
valente e schietto galantuomo, mandò fuori per la stampa un
opuscolo altrettanto modesto che veritiero, dove l'acqua di Barco
veniva raccomandata per casi di pirosi o gastroenterite antica, di
epatite, splenite, nefrite, cistite, uretrite, nella itterizia, nella
scrofola e più specialmente nelle malattie erpetiche.
La proprietaria della sorgente non diè fondo ai suoi capitali
per far onore a quello stampato, la cui diffusione rimase circoscritta
al territorio di Lecco. Fu eretta, per comodo degli accorrenti e
battezzata col titolo di caffé, una baracca di legno mal
connessa e disadorna ; fu dichiarato al rispettabile pubblico che il
villaggio di Barco, frazione di Belledo, non poteva offrire ai
convalescenti che un pajo di buone osterie con una ventina di letti.
Era un programma poco attraente
e molti anni dovettero trascorrere prima che si desse mano alla
costruzione dell'albergo male architettato ed insufficiente, che oggi
vien aperto al pubblico nella grande stagione. Nullameno, stante
l'amenità del luogo e l'efficacia delle acque, nei primi tempi
il concorso non fece difetto. Da Monza, da Cremona, da Lodi capitavano
a Barco, nel
luglio, degli esotici personaggi fatti ad immagine del dottor
Azzeccagarbugli - il naso spugnoso, la fronte piena di screpolature, le
guance coperte di squame. Si acconciavano
alla meglio nei venti letti. Di buon mattino salivano alla fonte, e
riscinquandosi la, ventraia protuberante,
facean gli occhi dolci alle belle lecchesi, che a quell'epoca si
affollavano a torme sul luogo per isfoggiarvi le trasparenze delle
candide mussoline. Ma era un lagno generale. Mancava la
proprietà, mancavano quei comodi, quelle attrattive che
intrattengono la buona società e giustificano
l'eleganza ed il lusso. Due sole vasche, non ricordo se di legno o di
pietra grossolana, fecero per anni parecchi il servizio dei bagni - e
quale servizio! Si promettevano migliorie,
ai progetti si contrapponevano i disegni, i disegni ai progetti, e
frattanto lo statu quo persistente distornava i forastieri, e portava
lo scoramento nelle nubili fanciulle e nelle vedove insoddisfatte che
soglion fornire il più amabile e il più ameno contingente
alle terme. Chi un poco si intenda di piccoli paesi, non stupirà
di quanto sto per dire. Non tutti a Barco vedevano di buon occhio la
fonte; i bigotti, i maggiorenti, gli uomini di stampo antico, amanti
del quieto vivere, presagivano un rovescio dell'ordine pubblico. Lo
insolito concorso era per essi un disturbo; lo sviluppo di una nuova
speculazione minacciava il regolare svolgimento delle antiche. Le
beghine, fameliche di peccato, per ogni coppia che si smarrisse nei
labirinti circostanti alla fonte, fantasticavano adulteri e cose
peggiori. Gli erpetici dal naso rosso portavano la corruzione in paese;
Dio minacciava la grandine e la siccità pegli orrori commessi
negli intervalli delle bibite.
Sono scempiezze che attecchiscono nei volghi; ma i volghi ne andrebbero
esenti, se in ogni centro popolare i cretini che godono autorità
perché san leggere e scrivere, non si incaricassero di
propagarle. E qui arrestiamoci per non dir troppo. A me occorreva
notare che la scoperta delle acque
minerali non diede a Barco quel profitto che era da attendersene
qualora al beneficio della natura avessero corrisposto gli accorgimenti
della speculazione e le arti della reclame; indispensabili al successo
dei prodotti della silice come a
quelli del genio. Ma i vecchi se ne vanno, i maggiórenti
inebetiscono e si dimettono, i pregiudizi insensibilmente si dileguano.
Da pochi anni la
fisionomia del paesello si è tramutata, e pare
che lo spirito dei nuovi tempi, dirò meglio, lo spirito dell'
arte e delle profane innovazioni, sorvolando alle antiche e monacali
dimore, vi abbia deposti i germi
ad un avvenire rigoglioso e brillante. Delle iscrizioni quasi
sovversive si leggono ora, percorrendo il paese, ad ogni capo
di contrada : - Isola Gloria, via Fantasia, via Cesare Beccaria, via
Rossini, via Verdi, via Antonio Ghislanzoni... Ma sicuro ! - anche il
mio lungo nome, non badando all' eccedenza della spesa, han voluto i
buoni abitatori di Barco affiggere alla! casa dove io nacqui e dove
morirono
i miei padri. Sanno le muraglie quanti sarcasmi, in compenso di una
gentile testimonianza di simpatia o di pietà a
me accordata, ebbero a raccogliere il sindaco e i consiglieri del
piccolo comune !
Qual fu l'iniziatore di quel ríbattezzamento di contrade,
operatosi a Barco verso l'anno 1870? A quell'epoca, il sindaco Giuseppe
Invernizzi, del quale avremo a parlare
più innanzi, di pieno accordo col segretario Berti, maestro di
scuola, organista, compositore di polke e di mazurke, vagheggiava
l'idea di istituire nel paesello una banda musicale. Per inoculare in
un popolo il lievito dell'arte, nulla meglio di una esposizione di
parole fosforiche. La Isola Gloria e la via Fantasia significavano un
appello all'idealità; i due illustri nomi di Rossini e Verdi
volevano essere i precursori della banda vagheggiata. E la banda,
composta di una trentina di villici militarmente abbigliati, col keppl
a pennacchio tricolore, colla sciabola al femore, una bella domenica
esplose i suoi primi accordi sulla piazza del sagrato. Le trombe e le
oficleidi mandarono un tal rombo, che la montagna si scosse e il lago
diede un balzo. Chi ha assistito agli scrosci sinfonici di quella
banda, può vantarsi di aver gustato il massimo effetto di
sonorità che mai si perpetrasse da una batteria di istromenti
metallici. Era un frastuono; ma era
altresì, come già dissi, una pletorica aspirazione verso
l'arte.
Per sollevare quel macigno di ascetico idiotismo che pesava sopra una
popolazione intelligente sepolta da molti anni in un'afa letargica, si
voleva la forza esplodente della dinamite. Oggi, gli stromenti
esercitati dai vigorosi bandisti, dormono irrugginiti nelle stamberghe,
a lato degli invalidi fucili che già armarono le milizie
cittadine. Quelli, come questi, hanno compiuta la loro missione
civilizzatrice e avverrà difficilmente che ricompariscano sul
campo. La banda
di Barco, ad esempio di tutti i corpi rivoluzionari, paga di aver
aperta la breccia, si è tratta in disparte a contemplare
silenziosamente l'ingresso dell'arte bella, dell' arte vera, dell'arte
nobile e pacata. Non è forse lecito pronosticare un
invidiabile avvenire artistico al paesello, dove oggi due splendide
illustrazioni del teatro musicale, Amilcare Ponchielli e Carlo Gomes,
erigono le belle dimore, destinate al convegno delle Muse ed ai
sussulti delle melodiche ispirazioni ?
Com'è avvenuto che gli autori della Gioconda e del Guarany
venissero a piantare le loro tende, l'una di fronte all'altra, sulle
ultime appendici del melanconico Magnodeno ? Vorrei arrogarmi tutto il
merito di tale avvenimento; pure mi è forza convenire che altre
simpatie personali, accompagnate da eventualità favorevolissime
, esercitarono sull' animo dei due fantasiosi maestri una attrazione
irresistibile. La parte di merito che a me spetta esclusivamente (e ci
tengo come ad un diritto di proprietà artistica) è quella
di aver chiamati sui luogo i due illustri musicisti, e di aver
impiegati tutti i lenocini della mia eloquenza per convincerli non
esistere in Europa una zona campestre più propizia di questa al
risveglio delle aspirazioni e dell'appetito.
Il territorio di Lecco ha veduto in quest'ultimo decennio transitare,
pel laberinto de' suoi paeselli pittoreschi, i più notevoli
rappresentanti dell'arte melodrammatica. Venivano qui per ragioni di
libretto; ma una volta approdati, subivano il
fascino del luogo. Errico Petrella tornò più volte a
rivedere, dopo la gran stagione dei Promessi Sposi, il bel lago e le
belle montagne.
Il lago aveva lasciato in lui dei ricordi indelebili per la squisitezza
dei suoi agoni e la grandiosità delle sue trote. Nell'ultima
visita che egli ci fece poco prima di recarsi a Genova, che doveva
apprestargli la tomba, tutti i barcaiuoli e i pescivendoli delle due
rive furono in moto per ventiquattro ore onde procacciargli una trota
degna di lui. Sventuratamente in quel giorno, nè si pescarono,
nè si rinvennero trote negli acquari. Non vidi mai una sì
grande desolazione in quel povero maestro, che pure ne ebbe tante delle
ragioni per essere di continuo desolato. Quell'ultimo suo addio alle
montagne sorgenti dal lago, tuttochè espresso in semplice prosa,
senza il soccorso della musica, straziava
l'anima di chi lo udiva. Se la morte non avesse troncato innanzi tempo
l'affannata carriera dell' ispirato operista , io ritengo che egli
pure, non fosse altro per amor delle trote, avrebbe eretta la sua
capanna su qualche scoglio della riviera.
Passarono e accarezzarono l'idea di poter quandocchessia ripararsi
dalle guerre e dalle noje del teatro in qualcuno dei nostri ameni
paeselli, Cagnoni l'autore del Don Bucefalo e del Papà Martin,
Gaetano Braga il simpatico violoncellista, Cesare Dall'Olio il maestro
gentiluomo che diede splendidi saggi di ingegno e di coltura musicale
coi due spartiti Latore Fieramosca e Don Riego, Carlo Pasta, Edoardo
Perelli, Agostino Mercuri ed altri parecchi. Mandiamo un saluto agli
egregi maestri, e augurando che il bel sogno abbia un giorno a
realizzarsi per
ognun d'essi, vediamo come giunsero qui e perché si trattennero
il Ponchielli ed il Gomes.
Amilcare Ponchielli era stato, nella sua prima giovinezza, assai
duramente trattato dagli uomini e dalla fortuna. Basta vederlo; basta
osservare la sua rude e buona fisionomia; basta scambiare
due parole con lui, perché subito vi avvediate non esser egli
uno di quegli artisti ai quali sogliono di preferenza sorridere i
favori della società cincischiata e del mondo ufficiale. La
pompa delle esteriorità ripugna agli ingegni sodi
ed alle schiette nature. Inabili alla cortigianeria, gli uomini della
tempra di Ponchielli non sanno neanche vestirsi di quella falsa
modestia che giova tanto ai mediocri per rendersi accetti in certe
sfere. Fidenti nel proprio valore, essi sdegnano le strategie;
consapevoli della propria potenza, essi contano esclusivamente su
questa, per conquistare il successo. La lotta sarà più
ardua, più lunga; ma quanto più lusinghiera, quanto
più completa la soddisfazione del trionfo l Deploriamo la sorte
di coloro - e sono forse il maggior numero - che soccombono
combattendo, o muoiono scorati nella solitudine .e nell'oblio. Al bravo
Ponchielli non era serbata una tale sventura. Qualcuno si sovvenne (in
tempo utile), che un atleta dell'arte, ingiustamente respinto dai
teatri e dai conservatori, consumava melanconicamente in Cremona la sua
intelligenza vigorosa negli esercizi più spietati che una
città di provincia possa infliggere ad un maestro. Quando il
Ponchielli venne per la prima volta a Lecco, la sua eccentrica figura,
improntata di arguta bonomia, appariva circondata da un'aureola. Era
l'aureola del successo. Il mondo, questo ente collettivo, così
cieco, così ingiusto, così stolto, suol avere,
come gl'individui più ottusi e più tristi, i suoi lucidi
intervalli. I sentimenti più elevati pajono d'un tratto, in tali
fuggitive ricorrenze, comunicarsi per virtù elettrica ad ogni
ordine di persone. Alla cecità generale succede la generale
chiaroveggenza. Tutti riconoscono, in presenza di un uomo e di un
fatto, che una grande ingiustizia fu commessa, che vi ha una
riparazione da compiere.
E una splendida riparazione fu data dal mondo al Ponchielli. Una bella
sera, dopo la rappresentazione d' una sua opera giovanile, sepolta da
oltre due lustri nell'oblio, l'oscuro capobanda di Cremona era uscito
dal teatro Dal Verme col diploma di grande maestro. La città di
Milano echeggiò del suo nome. All'indomani dell'avvenimento i
cronisti intuonarono il peama, i critici sfoggiarono tutta la
suppellettile dei punti ammirativi, i sindaci si scambiarono;
telegrammi, le onorificenze si incrociarono sul petto dell'artista
acclamato, e i negozianti di musica, non mai schivi dal riconoscere il
genio quando fiutano il lucro, investirono l'autore
dei Promessi Sposi colle più laute profferte.
Uscito illeso dai lauti simposi e dal fragore delle acclamazioni,
Ponchielli, nell'ambiente calmo e sereno del territorio lecchese,:
potè ricomporre il suo spirito esagitato dalle sorprese della
fortuna. Per assaporare le grandi gioie, l'anima
ha bisogno di isolarsi. In presenza delle severe montagne, delle acque
azzurre irradiate dal cielo, alle vertigini del successo, sottentravano
deliziosamente nell'anima dell'artista i melanconici ritorni sul
passato e le nobili ambizioni dell'avvenire. Sul teatro del romanzo che
gli ricordava silenziosamente un grande trionfo, Ponchielli meditava i
Lituani. E frattanto, innamorato dei luoghi, egli vagheggiava un
idillio di arte e di amore che doveva bentosto realizzarsi. Infatti,
dopo alcuni mesi di assenza, il Ponchielli ricomparve a Lecco
accompagnato dalla donna gentile alla quale si era unito in matrimonio.
La giovine sposa, artista anch'essa nel midollo, era quella Teresina
Brambilla che aveva tanto contribuito al successo dei Promessi Sposi,
cantando al teatro Dal Verme la bella parte di Lucia. L'albergo del
Porto ebbe l'onore di accogliere all'indomani delle nozze, e di
intrattenere durante la prima fase della luna di miele, la coppia
meglio assortita che mai rallegrasse lo sguardo ed il pensiero di un
osservatore.
Quanta omogeneità di caratteri, di sentimenti e di aspirazioni!
Spettacolo raro a vedersi - un maestro acclamato che non posa da genio,
e una cantante di cartello che fuori del teatro non si atteggia a prima
donna assoluta. Passeggiavano estasiati in quell'ameno labirinto di
viuzze, dove ad ogni piè sospinto pajono ancora disegnarsi le
figure del padre Cristoforo, di Renzo, di Don Abbondio e dei bravi.
Associando ai ricordi del romanzo quelli dell'opera musicale che era
stata per entrambi un trionfo d'arte ed un fomite di dolcissimi
affetti, sostavano colle mani allacciate alla casuccia
di Renzo, si assidevano al deschetto di Lucia, parlando in versi o in
gorgheggi. Al Tonio che dirigeva quelle escursioni toccava spesso di
dover rappresentar la parte di Gervaso, e i casti abitatori di Acquate
debbono a lui saper grado se le estasi dei due sposi recenti si
contennero mai sempre nei limiti dello stile manzoniano più
corretto.
Si prende amore ai luoghi ed alle persone, pel sovvenire dei piaceri o
delle sofferenze che ci hanno dato. Il Ponchielli aveva raggiunto a
quell'epoca il colmo della felicità. La fortuna, incontrando in
una stretta viuzza il meditabondo capobanda di Cremona, avea dovuto
abbracciarlo di forza e trarlo seco fino agli sbocchi di un più
largo cammino. Ecco di qual maniera l'autore dei Promessi Sposi, dei
Lituani e della Gioconda, s'innamorò del territorio lecchese e
vagheggiò la idea di erigervi la sua dimora. Partì,
s'intrattenne a Palermo, vide Napoli, Venezia, Roma, Firenze - degli
incantevoli panorami si svolsero al suo sguardo; la squallida
grandiosità dell'agro romano fasciato dal Tevere, il Vesuvio, le
splendide notti di Sicilia, le infinite ondulazioni del mare lo
rapirono di entusiasmo. Una villa Ponchielli, evocata dalla fantasia,
dev'essere sorta sovra ogni lembo d'Italia dove l'arte o la natura
abbiano un' espressione di grandiosità solenne o di simpatica
mestizia. Ma eran ville che sfilavano nella volubilità di un
cervello, per svanire, col fumo della
vaporiera, dietro un treno di ferrovia.
Le alture del Gianicolo, Posillipo, la piazzetta di San Marco non
valgon dunque la cime ineguali del Resegone, le
arcadiche selve e le flebili cascatelle del Magnòdeno ? Come
farfalla al lume, Ponchielli dovette ritornare al paese. Qui aveva
vedute ed amate le prime montagne, e queste gli avevano comunicato,
come ad un indigeno, il mal sottile della nostalgia.
Abitò dapprima il palazzo che fu già di Alessandro
Manzoni, il Caleotto. Strana coincidenza! Tre anni prima, in quel
medesimo appartamento il povero Petrella aveva gioito quattro mesi di
vita sibaritica, consumando in anticipazione il magro reddito de' suoi
Promessi Sposi. E vedete come sieno capricciosi i giochetti della
sorte! Se Petrella non avesse preso a tema di una sua opera il celebre
romanzo del Manzoni, forse il Ponchielli, sudante e anelante sotto un
grave cappotto, dovrebbe ancora oggidì comprimere gli scrosci
delle sue rabelesche risate dinanzi ad un assessore municipale di
Cremona, fatto allo stampo di colui che, anni sono, dopo uno stupendo
saggio di sinfonia dato dalla banda, gli dichiarò che non si era
punto soddisfatti di lui, perchè le oficleidi e
le trombe non erano lucidate a dovere.
Fatto è che i Promessi Sposi di Petrella ricordarono e
richiamarono a vita quelli del Ponchielli - e nella casa dove il
Manzoni aveva pensato il romanzo, due maestri si succedettero, l'uno ad
esaurire gli ultimi spiccioli del suo patrimonio melodico, l'altro a
vagheggiare, dopo un primo trionfo, delle più ardue conquiste.
Pel corso di sette anni, durante la gestazione dei Lituani, della
Gioconda, dei Figliuol Prodigo e dei Mori di Venezia, Ponchielli
impiegò le sue ore d'ozio a misurare e scandagliare dei terreni.
Si trattava di scegliere la posizione più adatta alla
costruzione del suo casino di campagna. Quante oscillazioni, quanti
pentimenti, quanti dubbi, quante paure. Uno dei caratteri più
spiccati di. questa mente lucidissima, così aperta alle
intuizioni di ogni bello e d'ogni vero, è la irresolutezza, la
quasi morbosa diffidenza dei propri
criteri. Se una ferrea volontà non si fosse imposta a quelle
incessanti oscillazioni, oggi Ponchielli non vedrebbe compiuta la
bianca villetta torreggiante, alla quale non mancano, per animarsi, che
gli arpeggi di un pianoforte e i trilli di una simpatica nota. La
gloria d'aver intrattenuto a Barco l'autore della Gioconda spetta
dunque esclusivamente all'oste Giuseppe Invernizzi, detto il Davide.
Più volte mi è passata
pel capo l'idea di prendere a tema di scritto la storia di un piccolo
paese. Non si vorrebbe una storia come le tante che furono scritte fin
qui, ma piuttosto una fantasticheria basata sulle congetture più
razionali e sulle necessarie rispondenze degli effetti alle cause.
Molti insegnamenti utilissimi risulterebbero da un libro siffatto;
questo, fra gli altri, di veder dimostrato quanto grande ed efficace
sia l'influenza dei pochi sui molti, e come il talento,
l'operosità, il buon volere di un solo, valgono talvolta a
mutare i fati di una popolazione e a trasformarla completamente.
Oggimai, l'Albergo di Giuseppe Invernizzi, detto il Davide,
è celebre in Lombardia. Chi nomina Barco soggiunge Davide, come
chi dice Ajaccio proferisce mentalmente Napoleone.
Davide! Chi è costui? - Una grande energia paesana, guidata dal
buon senso più retto e dagli istinti più onesti. Questo
uomo di acciaio, che non cessò mai di esercitare la vanga e di
adempiere con esemplare attività a
tutti gli obblighi del colono, oggi personifica il progresso di Barco.
E` una prosperità, che di anno in anno sviluppandosi, si
concretizza in camere ammobiliate e in acquisti di terreni. Davide
è un coltivatore , raddoppiato di macellaio, di
sensale, di negoziante di pellami, di vetturale, di suonatore di tromba
e di sindaco.
Vangando i terreni altrui, adunò il valsente per acquistarli;
vendendo il vino e le carni. all' aperto, guadagnò di che aprire
l'osteriuccia ; infine, coi prodotti dell'osteriuccia, comperò
la casa che oggi può chiamarsi un grosso albergo. Quella casa
era mia. Dovetti venderla per pagare il tipografo che mi stampava la
Rivista Minima all' epoca in cui certi Rabagas mi accusavano di mungere
ai fondi segreti. Com'ero tanghero a quei tempi! Io credeva combattere
gli avversarti della monarchia, i nemici dell'ordine.... E quei nemici
dell' ordine, quegli avversari della monarchia erano i predestinati a
divenire pochi anni dopo i puntelli del trono
!
Torniamo al Davide ; le stalle dell'albergo di Barro non esalano il
tanfo di certi ambienti politici. Io v' ho presentato quest' uomo sotto
i molteplici aspetti della sua attività speculatrice , ma ancora
non vi ho detto che il Davide è un'anima di artista.
Intendiamoci. Non è artista soltanto chi esercita l'arte, ma lo
è altresì colui che dell'arte ha sortito gli istinti, e ,
non potendo altrimenti, li manifesta colla devozione e colla
entusiastica ammirazione di chi l'arte professa. Chiamatevi pittore,
musicista o poeta; e all'albergo del Davide le camerette più
confortevoli, gl'intingoli più ghiotti, i vinetti più
esilaranti saranno per voi.
E gli artisti non furono ingrati. Il pittore Fontana, autore del bel
dipinto l'Esopo, e il Vespasiano Bignami hanno impresso sulle muraglie
del simpatico albergo delle orme di riconoscenza che sono capolavori.
Agli svolti di una scaletta che conduce ai piani superiori, il Fontana
ha dipinto una adorabile testolina di donna ; e più innanzi ,
lungo il terrazzo che dà sul cortile, una baccante audacissima,
circondata di amorini che scherzano intorno ad un grandioso disco di
polenta, esibisce i suoi lussuriosi profili allo sguardo dei
commensali. Al piede di quella figura provocante si legge la umoristica
iscrizione: Questo dipinto nell'anno 1874 fecero colla massima
indifferenza Roberto Fontana
e Vespasiano Bignami.
Troppo lungo sarebbe l'elenco degli illustri o semi-illustri che il
Davide colmò di cortesie, e che, ospiti una volta da lui, gli si
professarono amici per la vita.
Figuratevi l'entusiasmo di questo oste foderato di artista la prima
volta ch'ei vide entrare nel cortile del suo albergo i conjugi
Ponchielli - un celebre maestro e una prima donna di cartello che si
degnavano di ordinargli una frittata
!
"Vorrei comporla con uova d' oro , vorrei friggerla col padellone del
cielo !" - E da quel giorno, da quell'istante il Davide si diede anima
e corpo al Ponchielli, lo sedusse, lo conquise, lo avvinse colla sua
ruvida, ma schietta bonomia, lo trattenne a
Barco per due o tre anni, e finalmente lo indusse a comperare un
terreno e a porre le fondamenta dell'edifizio.
Ponchielli non avrà da rammaricarsi della pressione che il
dabben oste ha esercitata su lui. Il poggio dove sorge il casino
è veramente incantevole. Alle quattro facciate rispondono
altrettanti quadri stupendi , che rapiscono lo sguardo, esaltano la
fantasia e parlano al cuore. Da ogni finestra entrano raggi di poesia;
negli atrii, nel giardino già folto di alberi, spira l'alito
dell'arte. I passanti trovano a ridire sulla ingenuità dello
stile architettonico e sulla povertà degli accessori. Che
importa ? La casa risponde perfettamente
all'indole, alle abitudini, alle modeste esigenze del proprietario;
Ponchielli non tiene al lusso , non ama
circondarsi di superfluità. Egli chiedeva un comodo e
tranquillo romitaggio per annidarvisi colla sua piccola famiglia, per
meditare, per ispirarsi, per accogliere alla buona gli amici e
sghignazzare liberamente alla barba del pazzo mondo. Sotto questi
aspetti, la casa non lascia desideri. Essa completa l'armonia che
già esisteva fra
l'ingegno, il carattere, il vestito, i modi e lo stile musicale del
simpatico artista.
Chi ha fatto le cose da gran signore , anzi, da gran signore Brasiliano, è il maestro Carlo Gomes. Il suo edifizio, discosto un cento passi da quello del Ponchielli, aspira per davvero al titolo di villa e promette le sontuosità del palazzo. Il poggio dove questo si erige è alquanto dimesso, ma il piano superiore raggiunge una tale elevatezza, che di là può l'occhio abbracciare tutto l'ampio panorama del bacino lecchese, dalla punta dell'Abbadia fino alle chiuse di Brivio. Il fabbricato rasenta la ferrovia e sbocca alla soglia del casello, dove tosto o tardi verranno a sostare i treni. Alla soglia del suo parco - un parco dell'estensione di quattordici pertiche all'incirca, attraversato da un amplissimo viale - il Gomes potrà dunque, tornando fra pochi mesi dal Brasile, scaricare la enorme massa di dollari e di trofei mietuti a Bahia ed a Rio.
Immagino la sua sorpresa e la sua
gioia nel vedere con quanta celerità ed esattezza - tenendo
conto dei luoghi e dei mezzi
- Davide, il factotum, il procuratore generale dei celebri maestri,
abbia adempiuto al mandato. Oggimai le greggie muraglie sono sormontate
dal tetto - negli atri signoreggiano le colonne di granito; la serra,
la vastissima serra, aperta alla luce di due orizzonti, non attende che
le invetriate - i pavimenti si coprono di mosaici, i balconi eleganti e
l'attico che deve abbracciare la tettoia si vestono
di marmi variamente intagliati. L'impazienza febbrile dell'autore del
Guarany si è comunicata agli architetti, al capomastro, ai
lavoratori. Col focoso Brasiliano non si scherza. Si sovvengono che il
giorno in cui il Davide stipulò l'acquisto del terreno, il Gomes
non poté mettersi a tavola prima di aver assistito ai primi
colpi dei picconi, e sanno ancora che, appena scavate le fondamenta,
egli
gridò con burbero piglio al capomastro: " Ebbene! Quanto si
tarda a mettere la tettoia? "
Con tanta furia nel sangue, è indubitabile che il dover
assistere ai graduali progressi della costruzione sarebbe stato pel
Gomes un mortale supplizio. Non volendo morire nè soffrire, si
appigliò al partito di andarsene. Diede gli ultimi ritocchi al
disegno dell'architetto, segnò il contratto col capo mastro; poi
chiamò il Davide, e ponendogli innanzi un bel cumulo di
banconote da lire mille - " Eccoti, gli disse, quanto occorre per
l'impianto della casa
-- addio ! - tornerò fra otto mesi; dammi la tua parola d'onore
che alla sera dell'arrivo potrò dormire nella mia villa. - Il
Davide si picchiò il petto in segno di affermazione, e il fosco
maestro partì pel Brasile.
Gomes scrisse a Lecco, o più precisamente a Malgrate, i suoi
ultimi spartiti. Anch'egli venne qui per trovarsi vicino al suo poeta,
per consumare nella solitudine campestre i primi sacrifici
dell'imeneo.... Nelle spaziose sale, piene d'aria e di luce, circondato
dai figli che ricambiano di tanta felicità chi sa amarli
com'egli li ama, l'autore del Guarany,
della Fosca, del Salvator Rosa e della Maria Tudor, troverà gli
estri vivaci della sua giovinezza per creare dei nuovi capolavori.
Chi mai avrebbe pensato, or fanno dieci anni, che Barco avesse a
diventare un'officina di melodie, un centro luminoso dell'arte, al
quale dovranno convergersi gli sguardi dell'intero inondo musicale?
Frattanto il paesello si rinnova. Spuntano qua e colà come per
incanto degli eleganti casini
signorili. I coloni danno il bianco alle muraglie; il Davide dilata i
suoi appartamenti; l'ottimo Barozzi, conduttore dell'albergo prossimo
alla fonte, fa del suo meglio per abbellire il suo stabilimento,
alquanto negletto dai proprietari, e ogni giorno vi introduce delle
migliorie.
Barco nell'estate e nell'autunno, promette tramutarsi in una brillante colonia di poeti,
di letterati, di giornalisti, di maestri e di editori. Lo scorso anno
abbiamo avuto qui il poeta Zanardini, Amintore Galli, Francesco
Zappert, Luigi
Mancinelli, e un viavai incessante di editori, di cantanti e di
impresari. Quest'anno, abbiamo il Roeder e il Catalani, due giovani
musicisti rivali di ingegno e già noti favorevolmente nel mondo
dell'arte. Il Roeder stà compiendo una grandiosa opera tedesca,
destinata alle scene di Berlino.
Si è notato che i villeggianti d'ogni ceto, venendo qui,
prendono, dopo pochi giorni, l'intonazione dell'ambiente.
I gran signori smettono il sussiego, le dame semplificano la loro
toletta, e una simpatica cordialità viene, a stabilirsi in ogni
convegno. Verso le cinque, nel cortile del Davide e sull'erboso
altipiano dello stabilimento Barozzi, si pranza
allegramente. Le figlie degli albergatori, spigliate e modeste, fanno
il servizio delle mense. Il frak uggioso di quei merli stizziti che si
chiamano camerieri, non disturba l'armonica giocondità di quei
pasti. Sulla sera, dagli omnibus e dalle carrozze viene a versarsi nel
paese un numeroso contingente di buone figure indigene.
I vari gruppi si riuniscono, si ciancia, si ride, si organizzano le
escursioni pel domani. I fanciulli si sbandano coi cani, le ragazzine
danzano al suono degli organetti....
Avete letto il bel libro del Ruffini che si intitola: Un angolo
tranquillo nel Giura? Nella prima parte di quel romanzo son descritti
gli sviluppi di una prosperità paesana che oggi Barco ha quasi
completamente raggiunta. La storia dell'angolo tranquillo è
incominciata sotto gli auspici più sereni, ma in seguito, per
colpa degli uomini e del fato, si svolse in una catastrofe miseranda.
Faran bene i miei ottimi compaesani a leggere il libro del Ruffini. Non
si sa mai quel che può accadere ad un paese già prossimo
a tramutarsi in un accampamento di maestri, di suonatori, di cantanti,
di impresari, di faccendieri teatrali e di poeti.
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ANTONIO GHISLANZONI: nato a Barco di Maggianico (Lecco), il 25 novembre 1824, studiò in seminario, da cui fu cacciato, e poi si iscrisse a Medicina a Pavia, ed intraprese la carriera di baritono. Mazziniano, nel '48 a Milano fonda e dirige giornali repubblicani, poi deve rifugiarsi in Svizzera, ma verrà ugualmente arrestato dai francesi , e deportato in Corsica. Dal '56 si dedica esclusivamente alla letteratura, e al giornalismo; scapigliato, fonda "L'uomo di pietra" e "Rivista minima", e dirige "Italia musicale", e redige "Gazzetta musicale". Nel '69 torna al paese natio, ove, fra l'altro, scrivi i libretti per "Aida" di Verdi, "I lituani" di Ponchielli e "I promessi sposi" del Petrella. Ha pubblicato, fra gli altri, i romanzi "Gli artisti da teatro", 1857, "Un suicidio a fior d'acqua", 1864, "Angioli nelle tenebre", 1865 e "La contessa di Karolystria", 1883. È morto a Caprino Bergamasco (Bg), il 16 luglio 1893.