Maggianico e i suoi Curati
Questo documento è stato ricavato dal libro di Aristide Gilardi MAGGIANICO E I SUOI CURATI, stampato nel 1934. In coda c'è un elenco dei parroci di Maggianico fino al 1995. (N.B.)
Frammenti di lontane vicende
Uberto Pozzoli - e s'ha sempre d'attingere a lui quando si vuol riandare le vicende delle nostre terre - ha scritto, in una sua mirabile prosa, che attorno a Maggianico alitan sempre gli spiriti buoni di Sant'Ambrogio e di San Carlo, a cui furono particolarmente care le casupole - ai tempi loro proprio casupole - del paesello mollemente adagiato sulla riva sinistra dell'Adda. E soggiungeva, Pozzoli, che "sotto l'intonaco grezzo di una di quelle case - un'antichissima chiesuola - deve essere ancor viva la figura di Sant'Ambrogio, con lo stendardo bianco segnato dalla rossa Croce: una figura altissima, che teneva tutta una parete verso meridiana, e testimoniava di secoli lontani, quando i pittori non sapevano ancor far muovere i loro santi, ma davano ad essi - pur nella rigida immobilità - il potere di parlare alle anime. Quella chiesuola, forse, era un altro segno della potenza fra noi del Grande monastero, che accendeva le lampade con l'olio dei nostri olivi: certo era una prova dell'antico culto della nostra gente per il padre della Chiesa Milanese".
E San Carlo? Si può discutere, bilanciando le probabilità, se Sant'Ambrogio sia proprio venuto fra noi - e il nome, tutt'ora in uso, della frazione a lui dedicata, lo farebbe creder di si - ma non si ha da porre il minimo dubbio sulla visita di San Carlo perché fu proprio lui ad eriger la parrocchia, il 12 Novembre 1567, segnando la fondiaria con le sue venerabilissime mani. Prima d'allora - guardate un po' - Maggianico si chiamava Ancillate o Incillate e dipendeva canonicamente dalla pieve di Lecco il cui prevosto,è noto, risiedeva a Castello. C'era,è vero, a Maggianico, un cappellano con la facoltà di amministrare i Sacramenti e celebrare la Messa nella chiesa di Sant'Andrea Apostolo, ma gli mancava quella autonomia - importantissima, psicologicamente, per un prete - che dà al pastore la consapevolezza e la gioia di guidare al cielo le anime affidate alla sua cura.
Il cappellano, forse, non se ne doleva più del necessario, ma "li huomini di Maggianico" sì, e piano piano, senza colpo ferire, crearono quell'atmosfera di affiatamento e di unione entro cui maturano i progetti migliori. E quando San Carlo venne quassù in visita pastorale chiesero udienza; esposero le loro buone ragioni e si affidarono alla saggezza dell' Arcivescovo perché, mettesse le mani nella questione e cavasse, tra le spine, la rosa della loro parrocchia, giuridicamente eretta e canonicamente riconosciuta. Il Cardinale, con la delicata fermezza che distingue il primo Borromeo, inquadra, nitido, il problema, chiede una circostanziata relazione al cappellano Don Cristoforo Isacchi ed espone al prevosto, Don Lodovico Brugora, tutte le soppesate ragioni che inducono a staccare Anzellate dalla prevostura di Lecco.
Don Lodovico Brugora - un prevosto, a quanto pare, più onorifico che effettivo perché aveva preso possesso della pieve a mezzo del procuratore Don Baldassare de Corbino ed era occupato, per ragioni di ministero, altrove - non oppose resistenza come, forse, l'opposero i suoi coadiutori, dolenti di dover perdere un buon tratto di giurisdizione. Comunque, Don Lodovico Brugora rinunciò ai diritti su quella "vicinanza"... troppo lontana e Anzellate - cioè Maggianico - iniziò la sua vita autonoma. Vita oscura, in quei primi anni, perché non si son rinvenuti documenti che ci illuminino sui primi passi della novella parrocchia.
Un punto interrogativo
Oscurità che si infittisce per un punto interrogativo accampato sulla sommità dell'elenco dei tredici parroci susseguitisi nel governo delle anime. Nella tavola, appesa un palmo più su del bancone di sagrestia, non figura il nome del primo curato e il suo transitar in parrocchiaè segnato da quel punto misterioso.
Inutile, quindi, arzigogolare o, peggio, abbandonarsi agli allettamenti della fantasia. Conviene scendere al secondo nome, sorbirsi il disappunto di non trovare, neppure qui, una riga, un riferimento preciso sulla buon'anima di Don Simone Martini che resse la cura di Maggianico dal 1591 al 1631 e, in quarant'anni di ministero, non trovò cinque minuti di tempo per curvarsi su di un "in folio" e tramandare ai posteri qualcune di quelle "notitiae" che sono una ghiottoneria per i cosiddetti topi d'archivio. Così, mezzo secolo e più di vita parrocchiali siè sprofondato nell'oblio recando con sé, forse, un bel corpo di curiosità, di memorie, senza speranza di riaverne nozione. Invece, se Don Carlo Gorio avesse occupato il primo anziché il terzo posto nella serie dei parroci, avremmo avuto - c'è da scommettere - un esattissimo resoconto delle vicende della cura perché Don Carlo aveva spiccato il senso della cronistoria edè l'unico, fra i preti dei dintorni, che abbia impiantato, e scrupolosamente riempito, il suo bravo cronicon. Il qual cronicon comincia - si può essere più scupolosi? - dalla prima ora di residenza del curato a Maggianico e finisce, per mano sua, con le lettere che vacillano, le righe storte e i segni indecifrabili in testimonianza di forze fisiche ormai stremate. Il suo "Liber parrocchialis sancti Andreae Vicinantie de Ancillate"è proprio stato scritto "propterea notitiae sint" e ci dà una precisa configurazione morale di Maggianico nella prima metà del diciassettesimo secolo.
Vediamo.
Anzitutto s'ha da notar questo: la chiesa di Sant'Andrea - piccola, angusta, incapace di contenere, d'anno in anno, la popolazione in aumento progressivo - subì varie rifaciture: fu toccata ed ampliata più volte, sicché il 30 Novembre del 1631 si era appena finito di adattarla ad imprescindibili esigenze di spazio. In quel giorno - giorno freddo, piovigginoso, col Dicembre alle spalle - si svolsero tre cerimonie che si potrebbero definire di assestamento: l'ingresso solenne del parroco, l'inaugurazione dei lavori compiuti in Chiesa, e la festa patronale. Don Carlo Gorio - trapela dalla scrittura - era felice e le prime parole del cronicon le deve aver proprio messe giù la sera stessa della solennità poiché spira da esse un'aria festosa che contrasta - vedremo - con quelle che seguono. E ci dice, minuzioso, che per l'occasione s'era scomodato il Prevosto, in persona, a venire a Maggianico ed aveva cosparso, proprio lui, di acqua lustrale, le mura appena rinnovate. L'accenno al Prevosto nonè contenuto, - come dovrebbe - in un semplice inciso, ma occupa una buona pagina, perché non si trattava di un capo-pieve qualunque ma di un sacerdote di "alto lignaggio" (sentite il seicento?) e valoroso e buono per di più.
Era nientemeno, allora, Prevosto di Lecco, Don Filippo Cattaneo Torriano discendente dalla nobile famiglia Valsassinese e successo, pochi mesi innanzi, a Don Pietro Longo, lecchese autentico, morto di peste con alcuni suoi canonici, nell'Ottobre del 1630. L'epidemia - quella stessa che Alessandro Manzoni tratteggia nel suo capolavoro - aveva fatto strage, disseminato terrore e avvilimento nel nostro territorio sicché il Cardinale Federico "motu proprio" trasferì a Lecco, da Primaluna, ipso facto, don Filippo Cattaneo perché celebrasse le esequie del suo predecessore e riordinasse le sparse file dei parrocchiani terrorizzati dal flagello. Don Filippo non ebbe paura della peste, né d'altro e venne giù, coraggiosamente, a compiere tutto il suo dovere. Per tutto quell'anno non s'era concesso un minuto di riposo e la giornata del 30 Novembre 1631 rappresentava, forse, la prima sosta di un lavoro assiduo e doloroso. Per questo Don Carlo Gorio sottolinea l'intervento del Prevosto e si compiace di descrivere, con lunghi e roboanti periodi, la festa di Maggianico e la letizia degli animi, fatti lievi lievi dal pericolo che s'allontanava.
I toni e le tinte con cui si colora quel giorno di Sant'Andrea, i modi e le forme del tripudio, sono stati secenteschi davvero e nello scorrere le annotazioni del curato vengono in mente le frasi scultoree del Manzoni che definiscono, caratterizzandolo, il secolo barocco. Manca, qui, lo spazio per soffermarci più a lungo, ma si può assicurare che la pittura di Don Carlo Gorioè efficacissima e ben intonata all'epoca sua. Oltre al Prevosto fecero corona al novello parroco tutti i curati della pieve e toccò proprio a quello di Acquate (Don Abbondio, forse?) di stillare l'atto per "la presa di possesso".
Con questo rogito comincia la regolare stesura di documenti sui quali Don Carlo appoggia e intesse la trama della sua cronistoria. Difatti, sfogliate le prime pagine, s'affacciano i primi provvedimenti, i primi crucci anche, e si profila l'organizzazione della parrocchia che rinasce e si risolleva dopo il ciclone della pestilenza. A Maggianico, i morti erano stati parecchi: il registro della chiesa ne elenca una lunga serie e, a fianco di qualcuno, ci sono noticine, brevi brevi, che fanno impressione anche oggi: - morto da l'alba al tramonto: "sepellito di notte sendo tutto infetto": lascia tre figli:è padre del precedente. - Intere famiglie decimate, case vuote, campi ridotti come... l'orticello di Renzo.
Un po' per riconoscenza a Dio, un po' per aver subito un gruppo su cui contare, e un po' anche, per riaccendere la fede quasi sopita, il Parroco volle costituire, come primo atto, la Confraternita del Santissimo Sacramento. E scelse il capodanno del 1632 per radunare "li huomini", chiarificar loro gli scopi a cui la "scuola" era intesa e i modi e i canoni delle regole. Rigida mattina, quella fissata, con le stradicciuole rattrappite dal ghiaccio e il nebbione, fitto fitto, che s'invischiava nelle ossa. Da Barco, da Missirano e da Belledo convennero, nonostante gli incomodi della stagione, i futuri confratelli e in breve approvarono, facendoli propri, i suggerimenti del Curato, le norme dettate da San Carlo e furon d'accordo nella nomina del Consiglio. A dir il vero, Don Carlo Gorio aveva previsto e superato, con fine intuito, ogni difficoltà e aveva ammanito una lista di nomi in cui eran ugualmente e proporzionalmente rappresentati tutti i ceti, tutte le frazioni e le... tendenze.
Capolavoro diplomatico che ci dà la chiave per addentrarci nell'opera formidabile del buon prete: opera che non fu nè semplice né facile. Diplomazia - c'è un protocollo anche per i Curati, - di cui si giova per dipanare una vexata quaestio dell'allora chiesetta di Belledo. Le cose stavan cosi: l'oratorio, dedicato a S. Alessandro, venne giurisdizionalmente unito alla cura di Maggianico - rogito del notaio Zenone del 2 Settembre 1575 - con l'onere, per il rettore della Chiesa di Sant'Andrea - non ancor eretta in parrocchia - di celebrarvi la messa almeno una volta per settimana. Il testo latino del buon notaio non ammette - o non avrebbe dovuto ammettere - dubbi d'interpretazione perché scritto, chiaro e netto: - onus Celebrandi missam unam singulis hebdomadis. Come si sian regolati i predecessori di Don Carlo Gorio non sappiamo, ma se quella prosa scivolò, liscia liscia per loro, nel periodo, gonfio e ben tornito, del dottor di legge, trovò invece un ostacolo in un "messer di Belledo" che s'impuntò su di lei per dar noie e grattacapi al Curato di Maggianico.
Immaginate un buon uomo: religioso, tutto chiesa e casa: che vuol bene alla sua frazioncina,è attaccato ai diritti del suo oratorietto fuor di mano, e per esso si sente capace di affrontare tre giudizi civili, molti incomodi e vi farete una pallida idea della tenacia giudiziaria di Simone Arrigoni. A costui deve esser sembrato un sopruso il rogito del notaio Zenone e l'ha letto e riletto più d'una volta per rinvenire il "punto debole" e... farlo saltare. Facoltoso, senza crucci per i bisogni immediati della vita, - nonostante fossero anni di miseria - raccoglie un buon gruzzolo di "parpaiole" (simili a quelle che la manzoniana Agnese aveva promesso a Menico, suo nipote) e fa la spola da Belledo ai Cantarelli per consultare l'avvocato di sua fiducia che lo infoca e - sappiamo chi é - lo spoglia.
Lo zampino dell' Azzeccagarbugli
Diciamo la verità: un documento preciso, che individui nel patrono di Simone Arrigoni il dottore Manzoniano, non l'abbiam trovato, ma dalle memorie difensionali, dalle comparse e dalle ambigue tortuosità di tutta la causa giureremmo che dietro il possidente di Belledo si celava di certo quell'avvocato nostrano che il Manzoni incarnò nell'Azzeccagarbugli. E se non proprio lui in carne ed ossa, almeno un suo sostituto. Già dal pretesto si sente odor di cavilli e ci voleva proprio l'acume di quel Dottore per sostenere che "non essendosi fissato in qual giorno della settimana il rettore della Chiesa di Sant' Andrea dovesse celebrare a Belledo, l'atto era de jure nullo e annullabile". La digressione alla nostra storia pare, forse, superflua e vana, ma nonè, perché un ventennio circa della vita parrocchiale di Maggianico fu assorbita in questa estenuante e miserevole lite.
Tanto é vero che, tratto tratto, il povero Don Gorio, stanco e smarrito, sente il bisogno di riepilogare e insiste nello scusarsi, dicendo: - lis orla sine culpa mea — Senza colpa sua perché, a lungo andare, s'eran trovati in lizza anche il Curato di Germanedo e quel pacifico parroco d'Acquate che potrebbe esser anche Don Abbondio in persona. Comunque, il curato d'Acquate nel 1632 e seguenti si chiamava Don Mangiagalli e fu una provvidenza che fosse tirato in scena perché servì da elemento moderatore in quel clima arrovellato di puntigli e di non sempre chiare ragioni. Carta su carta, parole su parole: tre giudizi: tre sentenze: e sopralluoghi, indagini, testimonianze non cavaron - come si dice - un ragno dal buco e si finì in una transazione che aveva tutta l'aria di un armistizio fra combattenti moribondi.
Don Carlo Gorio tirò il fiato, Simone Arrigoni si rintanò nella sua fruttuosa proprietà e la celebrazione della Messa, nell'oratorio di Belledo, continuò per il suo verso.
Tregua di poco, osservata senza persuasione, pronta ad infrangersi al più piccolo appiglio. E l'appiglio salta fuori da un funerale e la lite si riaccende quando si scopre il testamento di un "cotal Frigerio" che profonde un patrimonio in beneficenza, menzionando i Riformati di Castello, i Cappuccini di Pescarenico e le due Chiese - ohimè! - di Maggianico e di Belledo. Fin qui niente, ancor, di grave: il peggio viene quando - in cauda venenum - si lesse il nome dell'esecutore testamentario: Simone Arrigoni. Don Carlo Gorio lo seppe all'indomani dal guardiano del Convento di Pescarenico, il quale s'era affrettato a zoccolare oltre il Bione per farsi messaggero della notizia grata e triste ad un tempo. Il frate e il prete entrarono subito in Chiesa, recitarono una fervida preghiera perché il Signore aiutasse Don Gorio e per tutta quella sera meditaron sul versetto di San Paolo che aveva, per ciascuno di loro, un riflesso particolare: - in tribulatione palientes, spe gaudentes, orationi instantes. - Ma, nonostante questo, la lite divampò dopo un mese e si ripeté nelle forme precedenti. Facciamo grazia al lettore ed a noi di riferire i particolari e saltiamo d'un colpo il groviglio intricato di controversie e motivi per concludere che solo quando Simone Arrigoni ebbe chiuso gli occhi, le cose s'appianarono - immediatamente - per opera del suo successore, Pietro Ornato. Siamo agli ultimi anni di Don Carlo Gorio: il primo parroco, di cui abbiamo notizie certe, é vecchio, stanco e si volge indietro a contemplare gli anni del suo apostolato. E' vero: la più parte s'è consunta nell'inutile logorio di schermaglie giudiziarie, ma - grazie al Signore - può elencare ben altro ed ha la coscienza di aver sempre agito, con fini onesti e mezzi schietti, per il bene delle anime.
La parrocchia era stata ricostruita ab imis dopo la gran bufera della peste: la fede si consolidava nei cuori: tutt'intorno c'era un alitar di religiosità che poteva ben illuminare il tramonto sereno di un pastore. I registri testimoniano della solerte operosità di Don Carlo Gorio edè tutta una serie di piccoli e continui provvedimenti entro cui si staglia la bella figura del prete che si era dato, anima e corpo, alla sua popolazione. Quando sia morto, e come. non siamo riusciti a sapere. La tabella, appesa sul bancone di sagrestia e più sopra accennata, accampa due punti interrogativi coi quali si dispensa dal farci conoscere l'anno della morte di Don Carlo Gorio e quello della nomina di Don Giovanni Pietro Acerbi.
Un silenzioso
Che il quarto parroco di Maggianico sia stato, per natura o per abito, taciturno e schivo di ricordar, con la parola o la penna, sé ed altri, é un fatto incontestabile. Forse pensando che la sua parte l'aveva già anticipata il predecessore con tutto quello scrivere e parlar di cui s'è detto, egli si rinchiuse nella sua canonica, intento solo a recitar preghiere, leggicchiarsi i sermoni e vivere una vita raccolta, tutta profumata di opere buone e di santi pensieri. Buon per lui, che si sarà guadagnato il Paradiso, ma non per noi a cui é toccata la briga - briga lieta, del resto - di sfogliar cartacce e documenti per risalire il corso degli anni nella vana ricerca di una riga o di un tratto di penna che ci mettesse sulla buona via per infilare, con un certo sugo, gli sparsi frammenti della vita parrocchiale di Maggianico. Delusi, ma non ingrati, recitiamo di cuore un Requiem per la buon'anima del Curato Acerbi e ci facciamo incontro a Don Gaspare Sanesi che occupa, nella serie, il quinto posto.
Eccolo.
è un pretino svelto svelto, ha due occhietti aguzzi, le labbra sottili e un'aria di uomo avveduto e solerte che consola. Sul finire del 1681 - pochi mesi dopo la scomparsa di Don Giovanni Pietro Acerbi - fa il suo ingresso nella Chiesa di Sant'Andrea senza - a quel che pare - feste solenni o cerimonie sontuose.
Positivo, pratico, va al nocciolo delle anime, delle cose e consacra il tempo libero alla coltivazione, razionalissima per quell'epoca, dell'orticello e della.... finanza parrocchiale. I predecessori, accaparratasi la stima dei fedeli, avevan potuto consolidare la congrua con legati ed eredità che permettevano, se non una vita lauta, almeno un'esistenza men dura al custode delle anime. Ma un'ordine sicuro, un elenco ufficiale, ben redatto, - su basi certe e diritti incontrovertibili - non c'era e Don Gaspare Sanesi l'ha compilato, dipanando dubbi, chiarendo questioni, dando, evangelicamente, a ciascuno il suo. Leggendo adesso i suoi scarabocchi - in quanto a calligrafia stava male anche lui, poveretto, - par che il suo sia stato un semplice lavoro di catalogazione, ma a ben riflettere, si vede, sotto sotto, un acume finissimo, una coscienza intemerata, e spicca, con contorni e rilievi, il nobilissimo desiderio di rimuovere ogni ambiguità e porre in linda evidenza i doveri ed i diritti finanziari dei parroci pro tempore. Opera preziosa che servì a troncare "in radice" ogni controversia e a mettere i curati in condizione di non dover più immischiarsi in contese giudiziarie o in diatribe private per, quei benedetti interessi, che guastali sempre, al dir del Manzoni, gli affetti. Con questo non si dice - per carità - che Don Gaspare sia stato solo un buon amministratore e che nulla allattasse i suoi gusti, fuor dell'arida precisione delle cifre. Tutt'altro: s' ha invece da dire - e risulta da un accurato spoglio degli atti - che Don Gaspare Sanesi, in quarant'anni, giusti giusti, di vita pastorale si mostrò sempre pensoso delle anime a lui affidate, si sacrificò e non si sottrasse a fatiche, consumando i suoi giorni nell'unica mira di piacere al Signore.
Aveva, subalterno e compagno nello zelo dei parrocchiani, un ottimo coadiutore, Don Andrea Sottocasa, che ne raccolse l'estremo fiato e lo sostitui dal principio del 1721 (Don Gaspare Sanesi mori in quell'anno) fino al 10 Settembre 1722. Poi anche Don Andrea scompare dalla storia parrocchiale di Maggianico senza poter stabilire dove i superiori lo avessero destinato. Il Prevosto d'allora, Don Giovanni Battista Bovara Reina - ch'era dottore in teologia e apparteneva alla congregazione degli oblati - si trovava un po' scarso, come si dice in linguaggio ecclesiastico, di preti e dovette fare di necessità virtù accollando temporaneamente la cura di Maggianico a Don Carlo Domenico Moiolo, già parroco investito di Germanedo. E Don Carlo Domenico Moiolo, per due inverni e un estate, fece la spola - celebrando due messe, predicando due volte la dottrina, ogni domenica - da Germanedo a Maggianico. Finchè nel Giugno del 1724 (giusto duecentodieci anni or sono) fece il suo solenne ingresso Don Domenico Sanesi che, dal cognome e da qualche altro indizio, si argomenta esser stato nipote del predecessore Don Gaspare.
Il nuovo parroco - sesto in ordine cronologico - dura in carica per diciotto anni e son davvero pochini per un paese cheè abituato a vedere i suoi preti, all'altare, trenta e più anni consecutivi. Coadiutore suoè Don Carlo Giuseppe Valsecchi, un montanaro di Val d'Erve, solido nella scorza, ma dal cuore tenerissimo e colmo di buona volontà. Son tempi tranquilli: niente turba la serenità dei due sacerdoti e la vita procede piana, senza gli ostacoli e le lotte di cui fu intralciata quella di alcuni predecessori.
Il libro della cronistoria riflette bene questo stato di animi e di cose e le annotazioni, abbastanza frequenti, segnalano solo i trapassi degli incarichi dati all'uno o all'altro dei confratelli, le adunanze nell'oratorio di Sant'Antonio, il cambio regolarissimo del priore e dei membri del consiglio. Qualche legato, qualche messa solenne e niente più. L'eco delle diatribe é sopito e Don Domenico Sanesi, quasi volesse ratificare la raggiunta concordia, firma, ad ogni occasione, aggiungendo la sua qualifica: Parrochus Maggianici, Barchi et Belledi. E verrebbe voglia di specificar meglio le intenzioni del curato col far seguire la massima latina: "Concordia fratruma aedificacit domum".
Nel 1743 s'affaccia il settimo curato, Don Giovanni Francesco Gattinoni che ha per coadiutore suo nipote Francesco e crea così, involontariamente, un bell'impiccio ai parrocchiani perché devon distinguere l'uno dall'altro per una piccolissima differenza. I due Don Gattinoni non incidono gran traccia nella lista parrocchiale: son ventitré anni, monotoni, senza un segno che li caratterizzi: sul cronicon una brevissima postilla per far constatare la nomina del signor Francesco Faver di Bortolomeo a sindaco della confraternita e niente più. Mancanza di notizie? Scarsa valutazione dell'importanza della cronistoria? Forse l'una e l'altra insieme. Fatto sta che, nostro malgrado, siam costretti a passar subito a Don Giovanni Battista Conti e rifarci della penuria di Don Giovanni e Don Francesco Gattinoni con la bella e larga e chiara calligrafia dell'ottavo parroco. 11 quale, sia detto con ogni riguardo, dev'esser stato un uomo svelto, franco, solito a dir sì e no senza circonlocuzioni o diplomatiche giravolte. Traspira, dalle sue ben spaziate righe, una austera sobrietà che subito conquide e si delinea, dal complesso delle sue memorie, il sacerdote integerrimo, tutto volto a cogliere le sostanze delle cose e la voce della verità. Gran fortuna per Maggianico perché negli anni turbinosi del 1767 al 1803 c'era proprio bisogno di un uomo come lui.
Maggianico, la guerra e l'arte
Anzitutto, Don Giovanni Battista Conti comincia a lottare, non per sé ma per il suo buon diritto, e fu una contesa serrata che aveva per armi - per il loro verso cruenti anche loro - i memoriali, le scritture degli avvocati e le dichiarazioni con tanto di bollo e di firme anguste. La nomina del parroco di Maggianico era affidata ai voti del popolo che aveva il diritto di eleggere chi meglio credesse fra i candidati proposti dall'Arcivescovo di Milano.
ll giorno nove del mese di Novembre dell'anno 1766 si procedette alla convocazione dei comizi e relativa votazione. Due soli i candidati: Don Giovanni Battista Conti, parroco di Chiuso - dove aveva esemplarmente esercitato il ministero sacerdotale - e Don Francesco Gattinoni, nipote, - s'è detto - del defunto curato e coadiutore in luogo. Sul nome di Don Giovanni Battista Conti si afferma il desiderio del popolo e il Consiglio Economico Supremo approva l'elezione con decreto del 12 Dicembre di quello stesso anno. Senonché Don Francesco Gattinoni insorge ed impugna la nomina.
Da qui una inchiesta regolare perché il sacerdote non eletto notifica una serie di motivi tendenti a stabilire che i voti toccati a Don Giovanni Battista Conti erano irrili e nulli. Il Conte di Fuentes inizia l'istruttoria e nelle more del giudizio l'uno e l'altro dei contendenti fanno sfoggio di lucide argomentazioni e si appellano al diritto canonico, alle bolle pontificie e all'autorità dei padri della Chiesa con particolare riferimento a San Gregorio Nazianzeno.
I testi sono interrogati, i maggiorenti del paese depongono innanzi ai giudici "la verità a loro nota" e ne viene fuori un fascicolone da far rizzare i capelli ai più pazienti inquisitori. Una donnetta del popolo, certa Orsola Pozzi di Barco, vuol porre in essere, coinvolgendola alla questione della nomina parrocchiale, una sua causa per la vendita di un fondo il cui ricavo sarebbe passato nelle mani a Don Francesco Gattinoni. Dal groviglio - dipanato con occhi di lince - appare a luce meridiana che Don Francesco Gattinoniè un galantuomo perfetto, un sacerdote sul quale non viè nulla da eccepire, ma risulta anche, purtroppo per lui, che la nomina di Don Giovanni Battista Contiè validissima e non può essere impugnata per nessuno "dei dedotti motivi". Il 13 Febbraio 1767 il segretario Fuentes, con due succinte righe, tronca la diatriba - serrata, ma corretta nella forma e nella sostanza - avvertendo che il Supremo Consiglio ha confermato parroco Don Giovanni Battista Conti. Conti... di qua., Conti... di là c'è, come in tutte le cause, un conto da pagare sul serio. A chi toccano le spese? Parrebbe dovesse prolungarsi uno strascico poco simpatico e in tal senso si dà fiato alle prime... trombe. Ma il loro suono si smorza, poco dopo, lasciando per l'aria l'eco stonato delle battute iniziali. Chi ha speso, ha speso: non se ne parli più.
Il parroco, raggiunta ormai una sicura stabilità, si mette al lavoro con lena rinnovata: dimentica, evangelicamente, i contrasti passati e compila un elenco statistico - interessante anche per noi - da cui si rileva "la condizione fisica della comunità di Maggianico" al 6 Febbraio 1769. Era il primo passo per aver sott'occhio il quadro parrocchiale e pensare alle anime ed ai bisogni loro con dati positivi e certi. Ecco: c'erano, allora, in paese, centotrentatré famiglie, trentadue donne vedove, due preti diocesani, due "extradiocesi", cinque chierici non appartenenti alla chiesa milanese, duecentocinquantacinque uomini che avevan oltrepassato l'età della prima comunione e duecentocinquanta donne : i bambini e le bambine erano, complessivamente, duecentotrentadue. Totale degli abitanti: settecentotrentasette. Don Giovanni Battista Conti fa notare che non c'erano coadiutori e chierici diocesani e - singolare - nessun uomo vedovo. Compiuta la statistica delle persone, il curato ispeziona i fabbricati delle chiese degli oratori: rintraccia, scartabellando, i documenti relativi e stabilisce che l'oratorio di Sant'Antonio da Padova venne edificato a spese del signor Pepino Manzone "per comodo del popolo di Maggianico" e che, pertanto, l'Autorità ecclesiastica concesse la "permissione di celebrarvi la messa quotidiana". E Don Giovanni Battista Conti appoggia le sue affermazioni con un rogito di un secolo prima, redatto dal notaio Attualia il 22 Gennaio 1677, e va a scovare un altro istrumento del notaio Cristoforo Ghislanzoni di Como col quale dimostra che il predecessore Don Acerbo aveva concesso il suo assenso perché il beneficio fosse trasferito dalla parrocchiale alla chiesetta dedicata al Santo di Padova. E va avanti, e trova carte ed atti, e passa dalla riabilitazione giuridica alla ricostruzione materiale. La chiesina di San Carlo - lo dicevamo che lo spirito buono del grande arcivescovo milanese aleggia intorno a Maggianico - aveva subìto il logorio degli anni: gocce d'acqua, silenziose e tenaci, avevan roso l'architrave, lesionato il legname, e nei giorni - non infrequenti - di vento, tutto il tetto scricchiolava come se stesse per sfasciarsi. E l'altare? Ridotto ad un mucchio di pietrame, pareva indecoroso al curato di celebrarvi il divino sacrificio. Don Giovanni Battista Conti, dove può, - se ne intendeva d'arte muraria - fa lui : lavora anche manualmente e tira su pilastri, raffazzona pareti e poi, soldo per soldo, raccoglie la somma necessaria per acquistare un altare nuovo, di marmo, addirittura. Il 4 Aprile 1773, al dolce schiudersi della primavera sull'Adda, i lavori son compiuti: l'oratorio, rinnovellato, spicca sul verde tenero della campagna e il Parroco, lieto, vi si reca in cotta e stola ad impartirvi la benedizione. A rigor di termini ci sarebbe voluto un prelato, ma il vicario generale della diocesi, Mons. Valentini, aveva concesso la facoltà ad hoc a Don Giovanni Battista Conti sia perché in curia, in quel momento, erano occupatissimi i delegati arcivescovili, sia perché gli parve opportuno dare una meritata soddisfazione al prete che, con tanta fatica, s'era adoperato per il rifacimento dell'oratorio paesano. Un mese dopo l'intima e devota festicciuola, Don Conti é a Chiuso, tra gli ex parrocchiani, per assistere alla prima messa di un sacerdote il cui nome spanderà, poi, luce e fama di santità.
Un viciniore santo e le campane nuove
Il pretino che saliva l'altare era "di mediocre statura, piuttosto magro, alquanto curvo nelle spalle. Il naso aquilino, gli occhi neri sempre sommessi e la dolce fisionomia cagionavano uno straordinario desiderio di continuamente contemplarlo". Era nato a Milano, da poveri artigiani, il primo Febbraio dell'anno 1747: aveva frequentato, come chierichetto, il Duomo; era stato ammesso all'ostiariato in quella chiesa dove, secondo i giudizi del mondo, sarebbe rimasto per tutta la vita a disimpegnare le più umili, ma non immeritevoli, funzioni. Invece, il Cardinale Pozzobonelli, visto in lui l'abito della pietà e lo zelo apostolico, lo destinò al sacerdozio, assegnandogli la cura di Chiuso. Aveva, nel giorno della sua prima messa, ventisei anni e dal volto e dagli atti traspariva la virtù e il desiderio di essere, per sempre, un santo prete. Si chiamava Don Serafino Morazzone: edè quello che la gente invoca beato e che il Manzoni ha descritto nella prima stesura degli Sposi Promessi.
La cristiana amicizia, strettasi in cosi dolce occasione fra i due parroci viciniori, continuerà fino alla morte di Don Conti et ultra perché gli spiriti buoni si amano e si comprendono anche dopo la vita terrena. Nella grande siccità dell'anno seguente - arsi i campi, frustrati i raccolti, e venuta meno anche l'acqua per gli usi domestici - i curati di Maggianico e di Chiuso assistettero, con ogni conforto, le popolazioni afflitte e posero in atto ogni mezzo perché l'avvilimento non accrescesse la comune sventura. Per più di due mesi il sole torrido martellò le campagne: ridusse i coltivi a zone secche, fendute da crepe : trasformò le verzure in mucchio di giallognole erbe. Alimentare la speranza, in questi casi, nonè facile e solo il cuore sacerdotale di Don Serafino e di Don Battista riuscì a trattenere il dolore in limiti ragionevoli.
Nell'Agosto del '73, invece, Maggianico aveva passato ore di trambusto e subito danni non indifferenti appunto per l'acqua che alimentava il molino e sfociava, poi, nell'alveo detto "la Vicina". Gonfio il torrente, cresciuto assai di potenza, ruppe l'argine, invase l'orto di Giuseppe Gualtieri detto Pinola, s'abbatté contro la casa dei Melesi di Ballabio, inondò le abitazioni prossime andando a sfociare al lago dopo aver devastato l'oratorio di Sant'Antonio - appena rimesso a nuovo - e la cascina detta di Sant'Ambrogio. Nella stessa notte, per un ingorgo improvviso ed inatteso al ponte della Bracola, Maggianico corse serio pericolo. Don Giovanni Battista Conti, anche qui, fece opera encomiabile e rinsaldò negli animi dei suoi parrocchiani la confidente fiducia in Dio.
Può cosi, nel 1775, - non era uomo che amasse dilazionare fatiche o lavori - intraprendere la rifusione delle campane e irrobustire la torre campanaria. Di tante opere compiute, a Maggianico, dall'ex curato di Chiuso, questaè la migliore ed é quella che ha assorbito maggior energia e che, più delle altre, l'ha soddisfatto. La cronistoria, scritta da lui, lascia capire - tra i punti e le virgole - una gioia piena, tutta cosparsa di letizia e di compiacimento. Già nel 1637 le campane avevan occupato i predecessori di Don Conti e s'era scritto un apposito regolamento che ne dichiarasse 1' uso per ciascuna funzione. Un vero protocollo... campanario che varrebbe la pena di illustrare se non ci mancasse - purtroppo - lo spazio e il tempo. Si trattava, poi, di una questione di forma e non erano in giuoco né la solidità della torre, nè l'armonia del piccolo concerto. Don G. B. Conti invece deve rinnovare tutto ab imis e non può certo, per ora, occuparsi del suono in fieri. S'ha da precisare: costruita la chiesa nuova - cheè poi, l'attuale - la torre campanaria rimase congiunta alla chiesetta in disuso, sicché fra il tempio e il campanile c'era un buon tratto, diviso, per di più, dalla strada "reggia", come ha scritto il curato d'allora. Sul campaniletto due sole campane chiamavano i fedeli a raccolta e dovevan farsi udire non solo a Maggianico, ma anche a Barco e a Belledo. Problema non sempre facile perché udibilità perfetta non c'era se non nei giorni - radi assai - in cui la breva e il tivano stavan zitti e il sole, alto nel cielo, illuminava i nostri paeselli. Fuor di questa condizione le campanelle facevan fatica - se pur vi riuscivano - a farsi udire e gli sforzi del campanaro non approdavano a nulla. Povere campanelle: erano trascorsi gli anni e i secoli: e le esigenze, cresciute, mal sopportavano la lenta pacifichezza dei tempi andati. O rinnovarsi o morire.
Nel 1763, sasso su sasso, s'era potuto innalzare, accanto alla chiesa novella, il campanile, ma da tredici anni, cosi, senza campane, pareva una statua con le orbite vuote. I deputati dell'estimo, col concorso del parroco e le oblazioni dei fedeli, avevan raggranellato duemila lire e con quella cifra - previo il consenso della Giunta comunale - si poteron iniziare i lavori per riadattare la torre - bisognosa di modificazioni - e fondere le nuove campane.
Il ventitré Gennaio del 1777, - con le stradaccie impraticabili e un assiduo turbinar di neve - arriva a Maggianico, rinfagottato in una carrozza, il signor Giovanni Crespi, figlio di Giacomo, che teneva aperto, a Crema, "bottega di campane". Il giovane ha l'ordine di squadernare gli attrezzi e predisporre le cose necessarie alla fusione e non far altro: il cinque Febbraio, al pallido sole della Candelora, verrà il padre a dar gli ordini opportuni e a cominciare il lavoro vero e proprio. A quei tempi le campane non uscivano, come adesso, lucide e sonore dalle fonderie, ma "si facevan di getto" ai piedi della torre su cui sarebbero state poste e il mestiere di ... campanaro aveva quella sfumatura di ... vagabondaggio che stava fra la scapigliatura artistica e il nomadismo dei giramondo. Certo che il mestiere era difficile e richiedeva un pizzico d'arte, un po' di praticaccia e molta, molta abilità. Per questo eran pochi i campanari valenti e bisognava indulgere sul prezzo e sulla richiesta, non sempre eque, degli artigiani.
I Crespi, però, si mostrarono abilissimi, svelti e davvero onesti nell'eseguire il loro lavoro. Due mesi ci vollero per scavare le buche, preparare le cataste di legna, costruire la forma e il quattro Aprile si esegui, in un getto solo, la fusione delle due campane più grosse, rimandando al giorno dodici "la colatura" delle altre tre minori. Il venti successivo si fusero le "ranette" usando il metallo delle antiche campanelle. E le cinque nuovissime campane troneggiarono, sulla piazza, per più giorni, attirando la curiosità dei paesani che avevan assistito, ora per ora, alla loro nascita.
Don Conti aveva dettato le iscrizioni e volle che ciascuna di esse recasse il nome di un santo, congiunto ad un ricordo locale, ed un buon pensiero. Sulla prima, difatti, fece incidere:
Deiparae incolarum Patronae commodata ut ex instrumento per Gasparem Ghislanzonum medio tabellionem confecto.
Sulla seconda:
Divo Andreae Apostolo cui templum est sacrum. Iacobus Crespi Cremensis fundebat e, sotto: Laudo Deum Verum, Populum voco, congrego Clerum, defunctus ploro, nimbum fugo, festa decoro.
Sulla terza:
Divo Antonio Patavino ob innumera accepta beneficia.
Sulla quarta :
Divo Carolo Borromeo Archiepiscopo Mediolanensi patrono praesentissimo.
Sulla quinta:
Divo Rocho huius gentis conservatori glorior esse lui quamtumvis ultima Crespi. Nam sine me dulcis non foret iste chorus. Iacobus Crespi cremensis fundebat.
Su ciascuna campana, bene impresso, si leggeva la data: Anno Domini 1777. Complessivamente il coro campanario era riuscito ottimo sotto ogni aspetto, per il tono armonioso, il peso specifico e la consonanza. Il quindici Maggio, curato e fonditori, siedono al tavolino della canonica e computano il dare e l'avere: ne risulta una spesa poco superiore alla prevista, arrotondata, poi, in lire duemilaottocentoottantasei. Cosi, nella profumata sera primaverile, nota il cronicon, "il detto signor Giacomo Crespiè partito da questa comunità per la città di Crema con amplia satisfazione d'ambo le parti". Quattro righe che valgono tutto un rogito e lasciano intravedere la letizia del Parroco, del fonditore e degli operai per la bella e ben riuscita fatica. La settimana seguente: quandoè l'alba, si spande pei campi, si diffonde sull'Adda e si ripercuote dal monte vicino un'onda sonora che va ad annunziare a tutte le chiese, a tutti i campanili dei dintorni la novella voce di Maggianico religiosa e concorde. E nel mese di Luglio, curato, fabbriceri e deputati dell'estimo rinnovellano il protocollo campanario del 1637, fissando norme più consone all'epoca e all'accresciuta popolazione. Tutte le regole, però, vertevano su appena quattro campane. La quinta era riservata agli onori da rendersi ai sacerdoti o per le cerimonie solenni; il coro completo, salvo gli omaggi ai "Vescovi, Arcivescovi, Principi e Sommi Pontefici" era interdetto a tutti gli altri usi.
Di fatica in fatica
Da dodici anni Don Giov. Battista Conti non si da tregua e, volta per volta, finito un lavoro ne architetta un altro. Adesso vuoi restituire, "in pristinum" (si capiva, che aveva bazzicato con gli avvocati) la casa parrocchiale e abbina, fondendole in una, due opere, se non indispensabili, necessarie: la demolizione dell'antica torre campanaria e il riordino della sua povera casuccia. E fa presto, e urge e preme perché gli operai finiscano prima dell'epoca fissata. Per la Madonna d'Agosto del 1778, difatti, entrambi i progetti sono eseguiti e si collaudano un mese dopo - 23 Settembre - per dar atto agli impresari Francesco e Giuseppe Manzoni "di aver lavorato a puntino, senza offesa personale". Bella formula, questa, per dichiarare che un'opera era stata fatta senza danno a persone od a cose e conforme ai patti stabiliti.
Senonché, il dinamico parroco - come definirlo altrimenti? - nonè ancora soddisfatto e cerca e trova un'altra lacuna da colmare. Il pavimento della chiesa, cosi com'è, non può reggere, con decoro, a lungo: pare un mosaico di crepe, di intoppi e di buchi. Don Conti, ogni volta che vi passa sopra, traballando, sente un richiamo interno che gli suggerisce, come un imperativo categorico, di provvedere. E provvede. Piano piano, senza far chiasso, rileva le misure: fa il calcolo dei "quadretti" necessari e chiede preventivi di spesa, interroga competenti, con quella oculatezza che é la prima dote di un buon amministratore. A ragion veduta, risulta migliore l'offerta del sig. Antonio Conca di Varenna a cui é affidato il lavoro. Dal 26 Aprile al 20 Maggio 1790 si lavora senza sosta alla ripavimentazione della Chiesa e, uno per uno, con meticolosa cura, sono infissi i seicentosessantasei quadretti occorrenti. Spesa complessiva: millecinquecento lire. Ma Don Giovanni Battista Conti prima di deporre il martello e il metro, ha ancora - ultima ves - una cosuccia da portare a termine, questa: la lapide del cimitero. Si direbbe che l'ottimo parroco, guidato da un oscuro presentimento, s'affretti a compiere i lavori in previsione della gran bufera che l'armata francese recherà alle nostre chiese. Ed eccolo nel camposanto, fra tombe ed erbe, a murar pietre per ricordare i predecessori ed a sospingere i fedeli a far altrettanto coi loro morti. Poi, finalmente, Don G. B. Conti si siede: infila cifre su cifre e rifà tutti i bilanci parrocchiali degli anni precedenti quando, non la penna, ma il martello richiedeva le sue cure. Sappiamo cosi che nel 1785 aveva avuto la rendita lorda di novecentosessantasei lire, che le spese erano ammontate a quattrocentosessanta e che egli dovette accontentarsi di cinquecento lirette, scarse scarse, per viverci tutto l'anno. Sappiamo, inoltre, che le anime erano salite a ottocento e che, per la festa del Rosario, Maggianico aveva ospitato sedici sacerdoti: un festone da lasciar tracce per un pezzo. La situazione finanziaria é statica, il curato sempre povero. Dalle arti manovali, alla penna, alle cure di ministero il parroco è instancabile: e, di fatica in fatica, gli anni volano e sopraggiungono, con le canizie, i crucci più gravi. Ha però qualche periodo di tregua, e lo confortano e lo approvano le visite di Mons. Tommaso Gallarati Scotti, Vescovo di Laro, che amministra la Cresima il 12 Giugno 1794 e "prepara il passo" a Mons. Filippo Visconti, Arcivescovo di Milano, venuto quassù il giorno 22 dello stesso mese. Per quell'occasione Don Giovanni Battista Conti ritrova la sua vena poetica - sopita dal dovere e dagli obblighi parrocchiali - e scrive due epigrammi festosi ed arguti, che si leggono ancora con piacere. Ma nel 1798 cominciano i guai sul serio. Nei primi giorni di Luglio i cappuccini di Pescarenico, coi quali il Curato era in ottima relazione, ricevono l'ordine dal Direttorio esecutivo della Repubblica Cisalpina di "sbarazzare" il convento e Fra Viatore da Bernareggio, guardiano pro tempore, corre dal Prevosto, Don Benedetto Volpi, ed entrambi mandano un servo del Cenobio - soprannominato "el pescarenel" - dal Parroco di Maggianico perché trovi, lui, cosi svelto, il modo più rapido per collocare convenientemente i frati.
Don G. B. Conti si fa in quattro: invia messi da tutte le parti, e da un tramonto all'altro, i cappuccini sono accolti, senza pericolo, da buone case, in attesa di raggiungere le altre sedi dell'Ordine.
Senonché, l'anno seguente, in Agosto, quando, ad uno ad uno, i monaci tornano a Pescarenico, trovano il curato più incanutito, più curvo, coi visibili segni di una grande angoscia appena superata.
Era avvenuto questo: il 25 Aprile del 1799, le truppe austro-russe avevan attaccato battaglia con l'annata francese al Ponte di Lecco e la lotta, durata fino a sera, non aveva visto la vittoria né da una parte né dall'altra; solo i morti, i feriti testimoniavano il reciproco accanimento. Il 26 successivo si iniziò il saccheggio di Chiuso, Belledo e Maggianico. La casa del parroco fu devastata e la sua stessa persona "versò più volte in imminente pericolo di cadere estinta". L'elenco di quanto fu asportato dalla canonicaè completo e va dagli abiti, alle posate, alle cianfrusaglie con l'intermezzo di ogni sorta di oggetti e indumenti. Don Conti rimase spoglio e, da un sommario bilancio, calcolò, oltre allo spavento, un danno superiore alle tremila lire. Per lui che - abbiam visto - doveva pensare a tutti i bisogni con quattrocento o al massimo cinquecento lire all'anno, la perdita era capitale. Non se ne sarebbe rifatto mai più. La stessa sorte era toccata al viciniore, Don Serafino Morazzone, a cui fu salva lla vita per l'eroico ardimento di Giovanni Luini, suo parrocchiano, che osò sfidare il pericolo traghettando il curato al di là dell'Adda mentre tutt'intorno a Chiuso, a Maggianico era in atto la "grande spogliazione".
In tale trambusto, Don Giovanni Battista Conti vide appressarsi la morte: una morte lenta che calava, lieve lieve, come tacita ombra, ad oscurar la sua vita, intensa e feconda. Da solo, ormai, non riusciva più a disimpegnare i propri compiti e il Prevosto gli mandò un coadiutore che ne agevolasse la fatica.
Non siam riusciti a sapere se il vice parroco Don Pietro Conti avesse rapporti di parentela col curato, ma si può affermare, con sicura coscienza, che lo assistette negli ultimi anni, nelle ore estreme e in limine mortis con affetto e cura veramente figliali.
Nell'autunno del 1803 - tra un dolce scampanio delle pievi vicine - il parroco di Maggianico fu portato al sepolcro e molti si inchinarono sulla bara, toccarono il feretro e si segnarono perché stava per essere inumato uno che, transitando sulla terra, aveva fatto veramente del bene.
Intanto, la Repubblica Cisalpina, con le sue leggi e innovazioni, passava al vaglio Chiese e Parrocchie, creando quella atmosfera di timore e di incertezza che si stende come spessa nuvola sulle cure del nostri paesi. A Don Giovanni Battista Conti era successo un prete della Valsassina - Don Giuseppe Invernizzi - che rimase a Maggianico per un solo triennio e non lasciò alcun ricordo sulle pagine della cronistoria. Forse non erano i momenti più propizi per affidare alla carta le proprie impressioni e Don Giuseppe - scarpe grosse e cervel fino - non amava impacciarsi in lotte o politici maneggi. O fors'anche perchéè proprio in questo periodo che Maggianico vide parecchie delle sue moltissime tavole di Bernardino Luini e Gaudenzio Ferrari prendere il volo per altri lidi e sparire per sempre. Quattro lettere autografe di Andrea Appiani, pittore di gran fama e Commissario, allora, delle Belle Arti, riflettono bene la situazione e rischiarano come e perché avvennero i transiti. I quadri, di cui si dice, non erano di esclusiva proprietà della Chiesa e gravava su di essi un diritto di Compatronato a favore di alcuni compaesani che non abbiamo potuto individuare. Il cittadino Appiani, con l'arte diplomatica che s'addiceva alla sua onorifica carica, riuscì ad indurre i compatroni a ceder le tavole forse calcando, con discrezione, sul fatto che la parrocchiale era da considerarsi definitivamente soppressa. Diciamo forse perché ci pare che nessun altro motivo potesse muovere i compatroni a cosi grave alienazione fuorché quello di sapere ormai tolti al culto le care e sacre immagini.
Comunque, l'Appiani scriveva, da Milano, al Cittadino Ministro dell'Interno, in data 22 Ottobre 1803, che era "finalmente e felicemente riuscito "ad ottenere il cambio di sette tavole del Luini e due del Ferrari con un altare di marmo, in opera". E premeva a tutta forza perché il Ministro non si lasciasse scappare l'acquisto e provvedesse, attraverso gli agenti dell'Economato, a far togliere da una qualunque delle Chiese soppresse (ed eran molte) un altare, per installarlo a Maggianico. Il 23 Gennaio del 1804 ritorna, con più insistenza, sull'argomento e spiega, senza circospezioni, che si tratta di un affare più unico che raro "e che interessa moltissimo dare esecuzione a questo contratto al fine di non perdere i capi d'opera di così insigni maestri". E poco dopo, ancora, di bel nuovo, scrive che "è necessario per l'incremento delle belle arti" concludere l'acquisto, finché il 9 Settembre 1804 spiattella tutto quanto ha fatto, detto e brigato per ottenere il consenso, soggingendo che "quei di Maggianico si sarebbero accontentati di duemila lire e di un quadro da lui scelto per detta cessione".
Le lettere dell'illustre pittore assumono un tono caloroso, implorante e si chiudono lasciando più viva che mai la curiosità nostra sul come si siano svolte le pratiche. A quel che sembra le tavole dei grandi pittori devono essere proprio esulate da Maggianico perché l'altare, oggi in opera, sul lato sinistro della Chiesa, é di stile diverso - estraneo, diremmo - alla parrocchiale ed ha tutta l'aria spaesata - Dio ci perdoni - di un intruso. Le proporzioni non sono rispettate, l'armonia é lesa e ci si accorge che qualche cosa di insolito ha determinato l'installamento. Ci sono invece, ancora, - ed é vanto ed orgoglio di Maggianico averle cosi ben custodite e conservate - altre figure Luinesche e un trittico, dai festosi e sapienti colori, di Gaudenzio Ferrari.
Alla domanda da noi posta se i quadri siano quegli stessi che solleticavano il buon gusto dell'Appiani - tornati ai patri lidi dopo la bufera - o reliquie, appena, dei tesori artistici di Maggianico, nessuno ha risposto con esattezza e documentazione e la fretta con cui questo opuscolo é stato buttato giù non ci ha acconsentito di approfondire l'interessantissima indagine.
Del resto, si può ben dire che l'arte non ha mai fatto difetto al paesello adagiato sulla sponda dell'Adda e che le tavole del Luini e del Ferrari hanno costituito - e costituiscono - la attrattiva più saliente della Chiesa sacra ad Andrea apostolo.
Chiesa soppressa, durante l'occupazione, come si suoi dire, francese: adibita, per qualche po', a scopi ben diversi dal culto: sempre devota e raccolta pur nell'oltraggio di funzioni non sacre.
Napoleone Buonaparte provvide poi, subito dopo, alla restaurazione delle Chiese col ripristino di ogni loro diritto e la chiesetta di Maggianico fu riaperta solennemente ai fedeli; le campane toccheggiarono di bel nuovo e la liturgia riprese il suo compito di grazia e di festa. E' parroco, in quest'ora lieta, Don Giuseppe Tavola nominato dall'arcivescovo di Milano fin dal 1808, quando la cura era stata retta dal coadiutore Don Giuseppe Beneduce per un anno intero: l'anno - é giusto rilevarlo - più amaro, forse, per Maggianico. Don Tavola ha cuore largo, non s'indugia in rimpianti, non perde tempo in vani rammarichi. Quello che é stato é stato.
Nel 1811 ha provveduto ad allargare il coro, all'impianto di un nuovo altar maggiore e rimettere la Chiesa in... funzione.
Don Antonio Preda, prevosto di Lecco, ottiene la facoltà di benedire le nuove opere e il 26 Ottobre. con una festa grandiosa, Maggianico si rifà degli affanni e dei dolori passati. Di Don Giuseppe Tavola, tutto preso, dalla fatica di restaurare ogni cosa in Cristo, non rimangono molte tracce perché il suo lavoro si é stemperato nelle anime che lo ebbero padre e fratello in ogni ora della vita terrena. Non alla cronistoria, adunque, dobbiamo chiedere notizie sue, ma ai cuori, e i cuori non si lasciano sfogliare come i nostri poveri libri.
A lui segue, nella cura parrocchiale, don Giovanni Gattinoni e il quarantennio del suo governo spirituale é tutto un capolavoro di fervore, di carità, di ben inteso zelo apostolico. Per lui - come per Don Giovanni Battista Conti, del resto - ci vorrebbe tutto un volume, e non acconsentendolo il tempo e lo spazio, siamo costretti, nostro malgrado, a non toccai neppur l'argomento per non sfiorare notizie e fatti che richiederebbero, se non altro, annunzi cosi vasti da toglierci le poche pagine che ancora ci rimangono.
In altra sede, con più tempo e pazienza, rievocheremo la luminosa figura dell'undicesimo parroco di Maggianico che dal 1826 al 1869 - gli anni del Risorgimento italiano - siè adoperato per le anime e per la patria con francescana pietà e italica fede.
Basta scriver qui il suo nome: Don Giovanni Gattinoni s'accampò per mezzo secolo nel paese a lui affidato e la vastità della sua opera vive e dura ancor oggi nella saldezza del lavoro, ispirato e compiuto, per la gloria di Dio. Quella gloria a cui mirarono, con ansia ininterrotta, tutti i parroci di Maggianico: dal primo - cosi umile da non lasciarci neppure il nome - all'attuale Don Giuseppe Dell'Oro che si merita proprio un capitoletto apposta per lui.
L'opera di Don Giuseppe Dell'Oro
Quando don Giovanni Gattinoni chiuse piamente gli occhi alla luce del sole - colmo di anni, di meriti e di virtù - la parrocchia fu retta, per pochi mesi, da don Pietro Stoppani - fratello del sommo geologo - curato allora di Chiuso, che preparò egli stesso la via trionfale a don Enrico Dossena, eletto parroco di Maggianico sul finire del 1869. E Don Enrico - che molti, ancor oggi, ricordano con vivo affetto - trascorse i suoi ventisei anni di cura lavorando con pacata e ininterrotta insistenza al bene delle anime e all'incremento della parrocchia che cresceva, giorno per giorno, di numero e d'importanza. Gli stabilimenti impiantati a Lecco, le officine meccaniche del territorio, le industrie sorte durante il periodo dell'assestamento italiano, - dopo le guerre per l'Indipendenza, - facevan sentire il loro moto propulsore anche ai margini della città, dove fioriron, come a Maggianico, case e ville e magazzeni, portando una nota nuova di movimento e di modernità. Don Enrico Dossena assistette - vigile - alla trasformazione del suo paese: ne segui i progressi, adeguando, di volta in volta, con senno e antiveggezza, i bisogni spirituali alle esigenze puramente materiali. Compito non facile, non adatto per tutti, che egli disimpegnò sino alla morte - senza mostrare noia o incertezza - con un tatto cosi fine e preveduto che pochi avrebbero sospettato in lui quando assunse la reggenza della cura. Timido, non eccessivamente incline, come qualcuno dei suoi predecessori, alle lotte per la difesa del buon diritto, seppe evitare ogni molestia prevenendo, e provvedendo, con tempestiva dolcezza, ad ogni cosa che potesse toccar da vicino le anime a lui affidate.. Qualche schermaglia, qualche cortese discussione e niente più. Potremmo dire esser stato questo il periodo meglio consone al dolce spirito di Don Enrico Dossena, che era tutto grazia, cortesia e bontà. Ciò non toglie che gli ultimi anni dovessero recargli un turbamento da scuoterne tutta la fibra. Non lieve e non comune il fatto in sè, e gravido d'impensate conseguenze per il parroco già lesionato nella salute. Una notte - lo abbiamo letto nei settimanali dell'epoca - la canonica di Maggianico fu invasa e assaltala dai ladri che forzaron le porte, scassinarono armadi, minacciarono la vita stessa del curato. Don Enrico Dossena, imbavagliato, assistette allo scempio e ne riportò così funesta impressione che non sconvolse per poco le sue facoltà mentali. I colpevoli, protetti da maschere, se la svignaron col bottino impensatamente ricco e il povero parroco dovette aspettar lunghe e trepide ore prima che l'alba svegliasse la gente e parrocchiani accorressero a confortarlo. Da quel giorno, preso da terrore, Don Enrico Dossena fece murar porte e finestre, sconvolse l' ubicazione della modesta canonica e infisse ferri e spranghe e serrature per ogni dove. Una specie di volontario reclusorio in cui, - sotto l'incubo di rinnovati assalti, - si spense tra l'ammirazione e la comprensione dei parrocchiani, in una rigida e piovosa mattina di Dicembre del 1896. La novena di Natale, appena iniziata, i preparativi per l'imminente solennità non acconsentivano indugi sulla nomina del Vicario spirituale e l'arcivescovo di Milano, cardinal Ferrari, ordinò a Don Giuseppe Dell'Oro di assumere il Vicariato di Maggianico il giorno successivo alla morte di Don Enrico Dossena.
Cominciando....
Don Giuseppe Dell'Oro era, in quel tempo, vice parroco di Acquate ed esercitava il ministero - con quel fervore che non si sminuì mai in lui, - a due passi dalla casa dov'ent nato e poco lungi dall'abitazione della mamma e delle sorelle carissime. Il suo curriculum vitae é assai semplice e racchiude, nella schematica brevità, tutta una vita serena, fra casa e tempio, interamente consacrata all'altare con luminosa fedeltà. Egli nacque a Castello sopra Lecco il 12 Febbraio 1861 e discende da una piissima famiglia di industriali serici in cui l'attaccamento alla religione e il provato galantomismo sono tradizionali e continui. Il padre suo, il compianto signor Fiorino Dell'Oro, morì quando nei figli, Don Giuseppe e Mons. Salvatore s'era già manifestata, con chiari segni, la vocazione per il sacerdozio; ma la meta era ancor lontana e gli studi appena appena avviati. Toccò alla madre, signora Antonietta Rizzi, il dolce compito di sorreggere i figli durante gli anni preparatori e indirizzarli ai seminari diocesani dove attesero esemplarmente al maturarsi della divina chiamata e al successivo progresso nei corsi ginnasiali, liceali e teologici.
Nel 1882 Mons. Salvatore Dell' Oro celebrò la sua prima Santa Messa e due anni dopo anche Don Giuseppe coronò il suo mistico sogno ricevendo, dalle venerabili mani di Mons. Luigi dei Conti di Calabiana, la Sacra Ordinazione. Era il 7 Giugno 1884 e il novello sacerdote, dopo aver innalzato per la prima volta l' Ostia Santa a Castello, nel giorno del Corpus Domini, fu destinato come coadiutore a Costamasnaga donde, un anno dopo, fu trasferito ad Acquate.
Ed ebbe cosi la insperata fortuna di continuare i primi passi della vita sacerdotale vicino alla madre - che abitava ad Olate, nella casa degli avi - e fu gran ventura per lui, perché ebbe la non interrotta possibilità di andare, ogni giorno, da lei e sentire e accogliere - e custodire per tutta la vita - quelle savie ed uniche parole che solo una mamma può e sa dire al figlio, anche se questi ha l'onore, la gioia e la responsabilità di rappresentare Iddio sulla terra. Nei pomeriggi solatii, nelle poetiche ore del vespero, non appena i suoi doveri di ministero lo lasciavano libero, Don Giuseppe Dell'Oro veniva ad Olate, sedeva accanto alla madre canuta e con lei trascorreva momenti preziosi, tutti consacrati a colloqui spirituali. Mons. Salvatore - raggiunto, da Osnago, Lecco - saliva anche lui alla casetta romita e la gioia si triplicava, rispecchiata e diffusa da tre cuori che palpitavano all'unisono e si capivano in Dio. Poi gli anni pesaron sul capo stanco della buona mamma; la malattia - lenta e dolorosa - ne fiaccò, a poco a poco, le forze: e la fibra, ancor robusta, dovette cedere all'inflessibile male sicché, confortata, assistita dai figli, Antonia Rizzi se ne andò in cielo, spirando - verità, e non metafora - nel bacio del Signore.
I due fratelli, affratellati vieppiù dalla fede e dal reciproco saldissimo affetto - esemplare anche oggi - ripresero, dopo la sventura abbattutasi su loro, i doveri a cui Iddio chiamò ciascuno di essi e ricercarono - trovandolo nell'esercizio d'opere buone - conforto e lenimento alla perdita gravissima. Don Giuseppe volle che una sorella s'accasasse con lui, ma s'eran appena sistemati, quando l'Arcivescovo dispose che il coadiutore di Acquate assumesse - pro tempore - la cura di Maggianico.
L'ingresso
La mattina del 21 Dicembre 1896, col breviario in mano, la corona del rosario in tasca e un pacco di immaginette da distribuire per la novena dell'imminente Natale, Don Giuseppe Dell'Oro apparì sulla piazza della Chiesa e ne riportò favorevolissima impressione perché, quasi attratti da mistico richiamo, i fedeli gli si strinsero intorno, costituendo - come avviene tra buoni e buoni - quel vincolo di stima e di affetto che ha resistito per trentasette anni e durerà - immutato - per un lungo periodo ancora. Don Giuseppe ricorda la prima predica, la sera, dentro la chiesetta di Sant'Andrea: i lumi accesi all'altare, la mestizia diffusa per la morte di Don Enrico Dossena e il primo alitar di speranze - poi confermate - che il Vicario dovesse succedergli nella cura e continuare la tradizionale bontà dei parroci di Maggianico.
Passò l'inverno e l'intesa degli spiriti si rinsaldò; in primavera Don Giuseppe Dell'Oro sostenne gli esami di concorso e nel maggio successivo - presentatosi ai fedeli che avevan diritto di voto per la sua nomina - fu eletto parroco con unanime plebiscito. Miglior sorte non poteva toccare - non a lui - ma a Maggianico, che s'era scelto un curato giovane, buono, pieno di zelo e munito quando ci sono non guastati mai - di cospicui mezzi finanziari. Prima preoccupazione : la Chiesa. Riordinarla, abbellirla, estenderne, di nuovo, la capacità. Don Giuseppe Dell'Oro affonda le mani nelle sue tasche, non chiede il concorso della popolazione e incomincia ad offrire, - oltre all'opera personale, più preziosa di tutto, - il contributo efficace del suo asse ereditario alla casa del Signore. I predecessori, sempre in lite fra i desideri e le possibilità materiali, non avevan potuto provvedere ad ogni necessario ritocco, con quella larghezza di metodi e di misure che lascia un buon margine anche al gusto ed all'estetica.
Trovò cosi, Don Giuseppe, molte opere da fare e da ricostruire ex novo: le lesene della chiesa, per esempio, eran smozzicate, sospese, - per cosi dire - in atto incerto, come indizio di lavoro avviato e poi forzatamente sospeso: le pareti prive da affreschi: il corpo centrale senza panche che agevolassero la sosta ai fedeli ed offrisse comodo riposo durante le prediche. Il Curato diede subito quel che occorreva per ristabilire armonia, accrescere bellezza e suggestività. Dal pavimento, alle mura, al tetto - perfino su, alla torre campanaria - va il suo sguardo indagatore ; rileva dissonanze estetiche, disaccordi statici e scomodità.
Il pittore Guarenghi, per ordine suo, fresca le pareti, raffigurandovi la vocazione di S. Andrea, il supplizio e la gloria nel cielo. Poi la scena, sempre commovente, della Samaritana e le trepidi immagini dei discepoli di Emmaus, nel fulgido attimo del Cristo che si rivela. La chiesa assorbe i primi anni della sua attività parrocchiale, e vi si stacca solo ad opera compiuta, per rinnovare, a fundamentis, la canonica. Don Enrico Dossena, buon'anima, l'aveva rattrappita con serramenti e chiusure in ferro, come se avesse voluto soffocarla in angusta penombra. L'aria contesa, la luce fioca, l'umidità, e l'odor di chiuso e di muffa, la rendevano melanconica e deserta. Don Giuseppe Oro aprì, sfondò, lasciando libero varco al limpido sole che illumina di luce sana e feconda la bella terra di Maggianico. La cappellania laicale fu accomunata al suo beneficio e Don Giuseppe provvide, con congruo deposito in Curia, ad istituire il fondo necessario perché la sua parrocchia avesse, in perpetuo, il coadiutore. Questo arido elenco di opere buoneè solo la parte estrinseca del bene che Egli ha fatto, agli inizi dell'apostolato a Maggianico, e lo si scrive qui, non per fargli un elogio superfluo, ma per documentare con quale animo e quali intenzioni avesse intrappreso il compito affidatogli. E ogni anno aggiunge bene a bene, spesa a spesa. Fa innalzare la bella casa per il coadiutore e la dona alla parrocchia: fa costruire un palazzo con giardino, cortili e portici, perché sia degna sede dell'Asilo Infantile, dell'Oratorio e delle associazioni cattoliche allora nascenti. Maggianico si espande, la parrocchia aumenta, con bella e cristiana fecondità, e le anime raggiungono il rispettabile numero di duemilacinquecento. L' Oratorio femminile, le suore per l'assistenza domenicale alle ragazze, per il soccorso immediato agli ammalati poveri, diventan necessari. E Don Giuseppe Dell'Oro chiama le figlie della Beata Capitanio perché aiutin lui o l'amatissimo vice-parroco Don Battista Vergottini a diffondere nei cuori il regno di Cristo. Fervore nuovo, lievito novello circola e agisce, in potenza e in atto, attorno alla Chiesa di S. Andrea. Sorgono le Unioni degli uomini e delle donne cattoliche, quelle dei giovani e delle giovinette e s'inseriscono sul tronco rigoglioso e amico della confraternita del Santissimo Sacramento e delle figlie di Maria. Con ordine, con misura e con metodo, la parrocchia va delineandosi sugli schemi perfetti che le Autorità Ecclesiastiche suggeriscono e, doveè possibile, ordinano alle popolazioni religiose. La spontaneità, madre di ogni opera bella e benefica, stimola e guida il parroco nel suo lavoro che talvolta precede i consigli e le istruzioni dei Superiori. Nei primi anni del secolo, Belledo - raggiunta ormai una certa ampiezza e possibilità - si stacca da Maggianico e si erige in parrocchia; ma non per questo scemano gli obblighi e i compiti del curato. Il parroco è sempre calmo, sorridente e trova per ogni contingenza la parola opportuna, assennata, dove il divino e l'umano si fondono in compiuta armonia. La sua casaè la casa dei poveri, dei dolenti, di tutti coloro che sono assillati da un cruccio o tormentati da un dolore. Quando l'Italia partecipa al conflitto mondiale e i combattenti lasciano il paese per accorrere, vigili in armi, a difendere la patria, Don Giuseppe Dell'Oro si fa garante, presso ciascuno di essi, delle loro famiglie, e assicura, promette e mantiene assistenza spirituale e materiale. I soldati passano dal parroco, ricevono la benedizione paterna (li ha battezzati lui) e si staccano serenamente dalla famiglia, perché il curato, cuore a cuore, ha detto loro le savie parole che solo lui sapeva e poteva pronunciare. Sono anni, questi, di somma fatica. per Don Giuseppe. La corrispondenza coi vari settori del fronte, con gli ospedali da campo, con gli aggruppamenti di prigionieri, la sbriga lui: sussidia i meno abbienti: pensa ai vecchi rimasti nelle case, agli afflitti e soccorre, con il conforto della fede, quelli che un ritardo postale o l'incertezza di una frase abbatte e prostra. Dal 1915 al 1918 Don Giuseppe Dell'Oro allarga la sua paternità spirituale, s'interessa di ogni combattente e li sostituisce nella autorità famigliare, nel disimpegno degli affari, nel consiglio e nell'aiuto domestico. Tutto a tutti, come suggerisce l'apostolo; si fa iniziatore di comitati per gli indumenti di lana agli alpini: confeziona pacchi per i parrocchiani languenti nei campi di concentramento nemico e trascorre le giornate in estenuante fatica. Le forze fisiche non reggono a cosi imponente logorio e Don Giuseppeè colpito da una gravissima crisi di esaurimento che per poco non lo toglie all'affetto della sua gente. La vittoria, auspicata con preghiere e voti e sacrifici dal curato di Maggianico, viene propizia per la sua salute, lo rianima e riprende i doveri di ministero.
Riabbracciati i figli vittoriosi, gioito con loro in fraternità di spiriti e di intenti, dona l'area per erezione del Monumento ai Caduti e dà, fattivo contributo perché venga innalzato accanto alla Chiesa quasi a simboleggiare perenne concordia fra la religione e la patria. Don Giuseppe, rettilineo e lungimirante, accoglie e pratica lo stesso amore per i vivi e i morti: indirizza sulla buona strada, come sempre, quelli e suffraga in silenzio, con devozione, questi. Poi, raggiunta l'ora meridiana della vita, vuol rendere meritato omaggio ai dodici predecessori e ne raduna le spoglie in ampia cappella, appositamente eretta nel camposanto, perchè il loro ricordo sia di guida e di conforto, ora e sempre, ai parrocchiani.
La Messa d' Oro
Incalzato e sospinto, ogni giorno, da un compito nuovo, da sempre più larghi orizzonti di bene, Don Giuseppe non siè accorto che gli anni passavano, che le canizie avvolgevan il suo capo venerando e, ancor lieto e vegeto, raggiunge ora il cinquantesimo anniversario dell'ordinazione sacerdotale. Se l'affetto fraterno di Mons. Salvatore non gli avesse preannunciato l'approssimarsi della fausta ricorrenza, Egli forse non se ne sarebbe avveduto, tutto preso, anche nel vespero, a lavorar per il Signore. Ma il popolo - il grande cuore del popolo, a cui nulla sfugge - da parecchi mesi, con delicata attenzione, siè predisposto alla data gaudiosa e sta innalzando archi di trionfo, addobba le vie, para le strade in nobile gara di superarsi a vicenda. Nei paesi della Pieve, nei crocchi degli amici, perfino in Arcivescovado la notizia s'è diffusa e l'Eminentissimo Cardinale Schuster - che ha constatato, de visu, quattr'anni or sono, i meriti acquisiti di Don Giuseppe a Maggianico - siè compiaciuto di inviare, per primo, i suoi voti augurali.
La lettera dell'insigne Porporatoè cosi bella e sentita, che merita proprio di essere riprodotta per la consolazione spirituale del parroco e per letizia dei fedeli.
Eccola. nella sua concisa integrità:
« Con grande piacere mi unisco spiritualmente al suo gaudio
« nel fausto cinquantesimo di sua Santa Messa. Le conceda il
« Signore nel radioso vespero che le auguro lungo, pace, pro-
« sperità, santità feconda, sicché non solamente il nome, ma
« ancora tutte le opere, siano d'oro per l'eternità.
« Benedicendola affettuosamente me le confermo.
In Cristo
ILDEFONSO, Cardinal Arcivescovo.
Dal cardinale alle autorità civili e politiche e, giù giù, sino ai più umili popolani,è tutto un coro di voci che si leva ad applaudire il sacerdote intemerato e benefico, il prete secondo il cuore di Dio, vissuto nella modestia, nella bontà e nel candore dell'altare.
Attorno a lui, mentre celebrerà la Messa d'Oro, tripudieranno poveri e ricchi in un crescendo di ammirazione e di festività, perché Don Giuseppe Dell'Oro, in trentasette anni di cura pastorale,è stato veramente l'araldo del Gran Re. E dal poetico camposanto si leveranno gli spiriti dei morti a propiziare il Signore per lui e a pregarlo di concedergli lunghi e fecondi anni ancora.
Ci par di vederli:è una teoria di anime - da lui sorrette, aiutate in ogni forma e modo - che si riaffacciano alla vita come tante fiaccole a scortare e benedire. E innanzi a tutti si profilano i curati di Maggianico, in cotta e stola, a congratularsi con il confratello e a sussurrargli parole amiche. Don Simone Martini apre il corteo.
Don Enrico Dossena lo chiude e gli altri dieci cantano, come un tempo, l'inno di Ambrogio e Carlo per ringraziare Iddio delle grazie elargite a Don Giuseppe. Il bene, racchiuso in tenace silenzio, riaffiora e fa capolino alla luce del sole. I parroci testimoniano: gli spiriti dei trapassati confermano e Don Giuseppe Dell'Oro - non c'è modestia che valga - rivede, nell'intimità della sua coscienza, tutta la sua vita rischiarata da un lume che non vacilla e non si spegne mai più.
Quel vivido e dolce e caro lume - fatto d'amore, d'indulgenza e di perdono - al quale hanno attinto, in vita ed in morte, tutti i curati di Maggianico e che, accesosi sulla parrocchia il 12 Novembre 1567, splende e splenderà ancora - alto e chiaro - nelle candide mani di Don Giuseppe Dell'Oro. Di Don Giuseppe Dell'Oro, che assomma e compendia tutta la virtù, la fatica, lo zelo dei dodici predecessori e rimane saldo, nella storia della Chiesa di Sant'Andrea, a congiungere il passato e l'avvenire in sempre più alta e feconda spiritualità.
foto del 1934
la casa parrocchiale
l'Asilo Infantile
chiesa di Sant'Andrea
I PARROCI DI MAGGIANICO dal 1567
l ) ? Battista Arrigoni 1567 - 1590 ?
2 ) Simone De Martini 1591 -
3 ) Carlo Gorio 1631 -
4 ) Giovanni Pietro Acerbi 1681 -
5 ) Gaspare Senesi 1681 - 1721
(fino al 19 Settembre 1722 fu retta dal vice-parroco Andrea Sottocasa, poi fino al Giugno 1724 dal parroco di Germanedo e vice-parroco di Maggianico Carlo Domenico Moioli)
6 ) Domenico Senesi 1724 - 1742
7 ) Francesco Gattinoni 1743 - 1766
8 ) Giovan Battista Conti 1767 - 1803
9 ) Giuseppe Invernizzi 1804 - 1807
10 ) Giuseppe Tavola 1808 - 1824
11 ) Giovanni Gattinoni 1826 - 1869
12 ) Enrico Dossena 1869 - 1896
13 ) Giuseppe Dell'Oro 1897 - 1942
14 ) Battista Vergottini 1943 - 1951
15 ) Giuseppe Almini 1952 - 1983
16 ) Gabriele Sala 1983 - 1995
17 ) Gaudenzio Corno 1995 -
Don Giuseppe Dell'Oro
Don Battista Vergottini
Don Giuseppe Almini
Pagina con foto dei funerali di Don Battista Vergottini (1951)