Storia - Dove è finito il tesoro di Mussolini?

Ho trovato in archivio questo opuscolo, presumo stampato nel 1946 o 1947. Non ho trovato nessuna informazione in rete, né sul libro, né sull'autore, né sulla casa editrice.
Lo metto in rete a disposizione di chi studia quel periodo. Ho digitalizzato il testo e in coda ci sono le scansioni di tutte le pagine.


Copertina


ENRICO DE GIORGI DOVE E' FINITO IL TESORO DI MUSSOLINI

ARTIGIANA EDITRICE - ABBIATEGRASSO

I MILIARDI DELLA COLONNA MUSSOLINI

Le ultime vicende del Governo che passerà alla storia come Repubblica di Salò, sono note. Ministri e gerarchi di un partito agonizzante erano fuggiti da Milano nelle prime ore del 25 aprile 1945, per tentare di raggiungere quel campo armato e trincerato che già da tempo avevano fatto costruire fra Sondrio e Tirano. Ma non si affacciarono alla Valtellina: a Musso la colonna "Mussolini" veniva fermata dai partigiani della 52a Brigata Garibaldi, ed il giorno successivo a Dongo, lungo il molo, tutti i componenti del nucleo erano fucilati per ordine del Colonnello Valerio. Inutile rifarci alla morte di Mussolini e dare una nuova versione delle ultime ore passate dal dittatore nella casa di Giulino di Mezzegra; si potrà aggiungere, se mai, che la rivoltella con la quale venne finito (una P. 38, di proprietà del Comandante Politico della 52' "Pietro"), passò come cimelio di guerra alla Russia, mentre il "dossier" segreto che il Duce portava con sÉ venne venduto, in due tempi successivi, ad agenti di potenze straniere.
Una pagina che si riallaccia a quelle vicende non però nota in tutti i particolari: quella della fine del tesoro che i repubblichini avevano arraffato un po' dappertutto, e che i partigiani del Lario si affrettarono a sequestrare. Dall'alto lago di Como partì nuovamente la colonna dorata non per finire nelle casse dello Stato, ma per giungere in quelle del Partito Comunista Italiano.
Osserviamo da vicino l'entità di questi capitali.
Si sa che a Milano, sul mandato di pagamento emesso per un miliardo, la Tesoreria della Banca d'Italia aveva potuto anticipare solo la somma di 286 milioni. Se le nostre informazioni sono esatte, i gerarchi avevano potuto ritirare però dalla filiale ambrosiana della Banca del Lavoro circa 310 milioni. Esisteva inoltre un capitale della "Muti" - partita frettolosamente da Milano asportando quanto era possibile (50 milioni) - ed il gruzzolo che le brigate nere avevano arraffato presso la Sede di Novara della Banca d'Italia. Questa di Novara, è stata proprio un'operazione brigantesca; e vale la pena di accennarne.
Un maggiore e due sottufficiali delle brigate nere locali si presentavano la sera del 24 aprile al Direttore della Sede (dove, anche in periodi normali, esiste una disponibilità di moneta ragguardevole) ed intimavano, con i mitra spianati, la consegna di quanto si trovava presso la Tesoreria.
Non era certo il momento di venire a patti o discutere, ed il Direttore, messo alle strette, si vide costretto ad accompagnare personalmente i rapinatori sino alla cassaforte. Vi si trovavano 325 milioni di carta moneta, in tagli da 500, ed il "maggiore" diede ordine di trasportare il tutto su una 1500 grigia che attendeva all'ingresso. L'operazione non era però finita: passando vicino agli sportelli di cassa, il terzetto notava come un voluminoso pacco di banconote fosse pronto per la distribuzione. Nuova richiesta, armi alla mano; serrata discussione. Il Direttore fece presente le necessità della Provincia, il bisogno immediato delle ditte per la paga degli operai. Invano: anche questi andavano ad aggiungersi ai 325 già rapinati, costituendo così quel gruzzolo di 334 milioni che la sera del 25 aprile si trovava a Como, proveniente da Novara.
L'inventario dei valori non si ferma qui. è necessario considerare anzitutto i fondi a disposizione del Comando Germanico della Marina - reparto forniture - di stanza a Como nei pressi di Piazza Volta, fondi che il Cap. Kummel portò con sÉ, durante la crociera; accanto a questi, i capitali del reparto forniture della Luftwaffe non certo inferiori ai primi.
Sommando tutti questi dati, ed assegnando ai tedeschi un gruzzolo complessivo di cento milioni, si ottiene la modica cifra di un miliardo e 80 milioni di lire italiane.
Nuova somma parziale: i fondi del Ministero dell'Interno (giunti a Como in compagnia di Zerbino), dei Ministeri dei LL. PP., della Cultura Popolare, del Sottosegretariato alla Presidenza, Direzione Generale di P. S. (fondo segreto), Direzione del Partito e Brigate Nere (Pavolini), Federazione di Como (Porta), valori a disposizione della famiglia Petacci.
Immaginate un po' i bagagli della colonna colmi di preziosi e di oggetti d'uso personale, di valigie rigurgitanti, di cofanetti, di borse d'ogni tipo e d'ogni capacità. Ma addosso alle persone, il meglio era stato nascosto con ogni cura, per la temuta caccia all'uomo cui sapevano di essere destinati.
Di superba bellezza erano ad esempio i tre brillanti trovati alla Petacci. I grossi cristalli sono passati tra le mani nervose degli uomini semplici della montagna, abbagliati dall'incanto misterioso delle gemme. Sono passati. Nessuno vi potrà dire oggi dove siano andati a finire. Erano custoditi in un cofanetto rosso, vennero valutati sul posto (da periti improvvisati) la bella sommetta di 24 milioni, e non riposano certamente negli abissi del lago per trarre in curiosità i pesci, nÉ sono stati riaffidati alla terra da un nuovo, timoroso padrone.
Riaffacciamoci quindi alla colonna; colonna eterogenea, mista di timorose persone ed uomini decisi a tutto. I tedeschi, che ne costituivano in senso pratico la scorta, avevano avuto ottime informazioni: ed è forse per questo che alcuni italiani, certi della fedeltà dell'alleato, trasferirono buona parte dei loro averi alla pattuglia germanica. E così, uomini e cose nel mattino della giornata fatale, cercavano di aprirsi un varco lungo la provinciale dell'alto Lago: contemporaneamente scendevano dalla montagna i partigiani della 52a Garibaldina, dalle valli correvano i profittatori. Il cammino della colonna era difficile, la strada da percorrere irta di ostacoli; la meta lontana assumeva già le linee del miraggio.

39 VALIGIE SEQUESTRATE

A Musso, poco oltre il paese, avvenne la sosta. Breve scaramuccia, discussioni a non finire, ed alla fine arrembaggio alle macchine ed al bagaglio in esse contenuto.
Valori dappertutto; valori nascosti nei più insospettabili oggetti: preziosa ad esempio quella specialità medicinale che se ne stava confortata dalla presenza di 5000 franchi svizzeri. Se ci volessimo fermare a questo particolare, bisognerebbe dire che la somma venne cambiata più tardi... a borsa grigia, cioè a L. 100 per franco dal dott. Maslowsky, e finì nella voce "bisogni della brigata"; va notato, per la verità che il cambio nero della moneta si aggirava in quel tempo sulle lire 200 ed il Maslowsky, soddisfatto dell'ottimo affare, sul mezzo milione ricevuto versò lire 5000 all'intermediario, quale senseria del lucroso contratto.
Parte dei bagagli presi dalle macchine riposarono nella notte presso certo Barbieri di Musso, quello stesso che oggi sta costruendo una modesta palazzina del valore di parecchi milioni. Qualcosa finì pure in depositi presso la Banca Amedeo di Dongo - per un importo che, ragguagliato al totale, è pari a pochi millesimi - ed alla Filiale locale della Banca Popolare di Lecco - cifre queste imprecisate ed imprecisabili.
Quanto si trovava nelle 39 valigie, nessuno riuscirà a stabilire con precisione; basti citare il caso che in una sola valigetta già di proprietà del Ministro Zerbino furono inventariati 1.170.000 lire, 250 mila franchi svizzeri, 40.000 pesetas e 160 sterline d'oro.
Le voci di appropriazione indebita cominciavano però a circolare con una certa insistenza sin dal mattino successivo, preoccupando giustamente qualcuno. Questo qualcuno era il "Neri", discusso Capo di Stato Maggiore della 52a Brigata Garibaldi, il quale osservando la piega che prendevano gli arrembaggi, munì la compagna "Gianna" di autorizzazione a rastrellare il tesoro disperso, che affluì in tal modo al Municipio di Dongo. E si affannò, la povera Gianna, a ricercare fra l'altro un prezioso sacco alpino, zeppo di oro e valuta estera, che la signora Petacci chiedeva inutilmente agli uomini della Brigata.
Certamente se il Neri (nome di battaglia del ragioniere Luigi Canali) e la Gianna (nome di battaglia di Giuseppina Tuissi) avessero lontanamente sospettato che lo zelo con cui concorsero a ricuperare i valori sarebbe stata pagato con il classico colpo alla nuca, forse si sarebbero disinteressati della cosa. O forse avrebbero agito ugualmente in questo modo; questi due comunisti erano probabilmente i più puri di tutta la compagnia.
La Gianna: l'ardimento d'ella partigiana era scomparso, quando il volume dei cumuli d'oro e dei monili andava sempre più aumentando, così come aumentavano di pari passo le cataste di biglietti da mille di franchi svizzeri e lire sterline. Pianse, sgomenta della responsabilità che si era assunta; pianse, come potrebbero testimoniare il Barbieri di Dongo, la Bianchi (impiegata del Municipio), il "Bigio" (nome di battaglia di Conti Luigi) ed il Rubini, allora sindaco dell'ormai famoso paese. Ma la lista dei presenti all'operazione non è finita: bisogna aggiungere il Maresciallo di Finanza di Germasino ed il Brigadiere Buffelli, oltre, ben si intende, a quanti giungevano e sparivano, entravano ed uscivano dai locali, portavano ed asportavano.
Vogliamo fare un computo approssimativo della somma racimolata?
Un competente in materia, una di quelle persone che sanno "pesare" l'entità di un tesoro; ha dichiarato che la colonna Mussolini era in possesso all'incirca di dieci miliardi: sicuramente di un miliardo e mezzo di carta moneta italiana, un miliardo di assegni e buoni fruttiferi, un miliardo di valuta estera, oro e brillanti in quantità ingente.
Molto e tangibili sono le mutate condizioni economiche di parecchi; e nei crocchi che verso il vespero si vanno formando lungo le straducole delle varie frazioni, vi è ancora un continuo bisbigliar di nomi, di fatti, di cose che si riconnettono a questa pagina di storia.
Parecchi, quindi, hanno sentito i benefici influssi di questa colonna; ma in particolar modo, la corrente dorata è fluita verso il Partito Comunista Italiano.

I MILIONI E L'ORO DI PONTE DEL PASSO

è noto che l'accanimento del C.V.L. era preciso per i resti neo-repubblichini; quanto ai tedeschi, viceversa, l'ordine era di scendere a patti, allo scopo di privarli (se possibile) delle armi, ma specificatamente di persone e cose italiane. Perciò la colonna germanica, che costituiva nucleo integrante i fuggiaschi di Milano, ottenne via libera a Dongo - non senza aver depositato Mussolini - e si avviò verso la Valtellina. Ma a Domaso venne nuovamente fermata, in attesa dell'esito delle trattative che il suddito svizzero Alois Hofmann (unitamente a "Pedro" ed a un tenente dell'aviazione tedesca) svolgeva a Morbegno.
Il transito dai successivi posti di blocco poteva però essere pericoloso per i nazisti, che si erano resi edotti come la ritirata fosse incerta e difficile. Ritennero pertanto necessario di non aggravare la loro posizione, con la presenza fra i bagagli, di valori appartenenti allo Stato Italiano. Avranno detto: fuggiaschi, va bene, ma ladri no (dove ci si rifà alla solita storia: l'onestà che viene suggerita dal pericolo).
Durante la notte alcune valigie cariche di oro finirono nel Mera per dare forse nuovo colore alle acque verdastre del fiume, mentre qualche altra venne raccolta da valligiani intraprendenti; diciamolo chiaro da questo «stato d'animo" della colonna tedesca traggono ora benessere molti pescatori ed alcuni contadini del Pian di Spagna. Ma ciò che è ben più interessante delle piccole case coloniche che vanno sorgendo sulla penisola prospiciente a Sorico, o delle mucche più numerose che sostano nelle vecchie stalle, o degli ozi dorati di qualche "disoccupato" credetemi, sono proprio quei rinvenimenti sul fondo sabbioso del Mera (?), dai quali prese consistenza il tesoro aureo del Ponte del Passo, del peso accertato di kg. 36,200.
Erano oggetti d'oro, molti dei quali ornati di pietre preziose, sequestrati ad ebrei e perseguitati politici delle provincie di Ascoli Piceno, Macerata e Camerino, rinvenuti dai fratelli Rino e Augusto Santi e... scrupolosamente consegnati al Comandante "Bill" (Lazzaro Urbano) presenti il sig. Hofmann ed il brigadiere di Finanza Scappin. L'oro, contenuto in un sacchetto di juta, sostò in un primo tempo nella casa dell’Hofmann, per passare poi nell'osteria (dove venne pesato e ne fu rilasciata ricevuta ai fratelli Santi) e finire in deposito alla Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde. La consegna venne effettuata da Bill, presenti i partigiani Aldo Castelli, Stefano Tunisi e Giulio Cassara (tutti di Domaso); ricevitore il Direttore della Filiale, rag. Guido Russi, unitamente agli impiegati Ermanno Gibezzi, Giuseppe e Luciano Tunisi. Come si vede, un'operazione di banca con tutti i crismi della legalità, fissata sulla colonna cinematografica dall'avv. Segattini; ed il bel filmetto dovrebbe trovarsi presso la sede di Como del Partito Liberale, dove venne successivamente consegnato.
Nel frattempo, mentre questo cumulo di oro "maledetto" entrava a far parte del bottino del distaccamento di Domaso, due ufficiali germanici, il capitano Kummel e il sottotenente Hess, spinti forse da quella famosa onestà del pericolo, sebbene fossero riusciti a far passare come libri un sacco rigonfio di biglietti da mille, ripensando alla difficoltà dell'ulteriore trasporto, decisero di venire a patti con l'Hofmann, prospettandogli un'intesa spicciola. Precisarono, i due: "Abbiamo 33 milioni e rotti di biglietti da mille. Dovevano servire per pagare fornitori italiani, non ci è stato possibile: dovreste quindi accettare in dono 11 milioni, dietro assicurazione di nasconderci i rimanenti 22 milioni". "Patto concluso" rispose l'Hofmann; ed in modo tanto semplice i tedeschi ci rimisero il bottino, mentre le occupazioni degli uomini del distaccamento di Domaso aumentarono.
La somma veniva ad aggiungersi a quell'oro già sequestrato, a 160 sterline ed a certi importanti documenti, che toccarono qualche mese dopo le rive del Tamigi, ivi portati da un'alta personalità britannica. Sappiamo che la preoccupazione degli abbienti è sempre quella di cambiar posto agli averi: l'oro ed i milioni rimasero quindi un solo giorno presso la Banca. Ritirati dopo 24 ore, riprendevano il loro pellegrinaggio, sostando anzitutto nella cantina di tale Venini Gianfranco di Domaso. Per due giorni ed una notte gli uomini di Domaso fecero buona guardia al tesoro; dopo di che giunse sul posto il Pedro (nome di battaglia del conte Pier Bellini delle Stelle) che, dopo averli ricevuti regolarmente in consegna, li passò al "Pietro", ossia a Michele Moretti, alias Pietro Gatti e dott. Mauri, come da carte d'identità in suo possesso.
L'oro contenuto nel sacco di juta veniva suddiviso in quattro sacchetti di kg. 4 ciascuno, cui se ne aggiunse uno di kg. 6 ed un ultimo di kg. 1,880. Questa è stata veramente una selezione scrupolosa, poichÉ nelle more dell'attesa per il definitivo destino, l'oro era diminuito dì poche centinaia di grammi (comprensibile, se si tiene presente che in origine era stato pesato unitamente al sacco ed alla carta che avvolgeva i singoli pacchetti), mentre i bei bigliettoni da mille, originariamente in numero di 33.020, si erano ridotti nel frattempo - per via della "breva" che soffiava sul lago - a 30.000.
Sta di fatto che il Moretti, effettuò il ritiro, ed unitamente a "Carletto" (nome di battaglia di Maderna Carlo) partì alla volta di Como, iniziando un viaggio che si è voluto far credere "senza fine", ossia senza meta.
E' proprio vera, questa versione? Vediamo di ricostruire come andarono le cose.
Strada facendo i due, che si erano premuniti a mezzo di un abile stratagemma di eventuali sorprese da parte di rapinatori o di pseudo-rapinatori, si dissero probabilmente che i segreti (in due) non sono più tali e che pertanto "lui", il Carletto, si sarebbe allontanato per non assistere all'ulteriore recapito.
Per questo, Carletto ha sempre sostenuto la tesi che, giunti all'altezza del Cinema Odeon di Como, ebbe l'incarico di recapitare delle lettere al C.L.N. provinciale. Sorge naturale la domanda del perchÉ si fossero fermati al Cinema Odeon (in via Diaz) con un carico così prezioso dal momento che il posto era il meno nascosto ed il più esposto alla probabile curiosità dei numerosi agenti di P. S. che sostano in permanenza nel caffè omonimo, sito nello stesso fabbricato del cinema. Ma non è facile dare una risposta, tanto più che l'alibi creato appare alquanto grossolano.
E' invece assodato che entrambi puntarono direttamente in via Cantù, consegnando il tutto nell'abitazione del Mentasti, noto valigiaio di Piazza S. Fedele. Il primo carico giungeva al Partito Comunista Italiano.
Il valigiaio Remo Mentasti, noto esponente del P.C.I. di Como, recapitò infatti quei sacchetti d'oro al Segretario Federale del P.C.I. Dante Gorreri, ottenendo da questi (a quanto pare) regolare ricevuta, del versamento.
Calato il sipario sull'ultima avventura dei fuggiaschi di Salò, mentre lo scorrazzare delle macchine dei defunti gerarchi scemava di intensità (vuoi per deficienza di carburante che per i guasti prodotti ai motori dagli improvvisati autisti), i comandanti della 52a Brigata Garibaldi si preoccupavano di raccogliere affannosamente quanto era in possesso della colonna Mussolini. Ma mentre il Neri sostava in permanenza nell'ufficio del Sindaco, di Dongo, certo di poter organizzare legalmente questa nuova e difficile operazione, nell'attigua camera, sul tavolo rettangolare, affluivano e sparivano ingenti somme: era un po', quel tavolo, il ponte di sbarco e di imbarco, la zona neutra dove sostavano i valori che, provenienti da un illecito cespite, partivano verso un'altra illecita destinazione.
Bisogna proprio convenirne: era un grosso guaio, la faccenda della definitiva sistemazione di tutto il tesoro; tanto grosso e complesso, che a nessuno dei presenti (sarà forse stato uno scherzo della preoccupazione) a nessuno, è passato per la mente di porre la parola "fine" sulle tesi contrastanti, consegnando il tutto agli organi governativi. E' certo, ad ogni modo, che uomini del Comando Generale di Milano insistevano per un "destino" (o meglio un dirottamento); uomini del Comando di Como pretendevano la totalità del sequestro, saldamente aggrappati al concetto che il tutto doveva considerarsi preda bellica e come tale spettante al Comando Lariano.
Non è facile, in simili circostanze, nel continuo andirivieni di fautori delle due parti e nella lotta ad oltranza di interessi in contrasto, dirigere il tutto verso l'uno o l'altro porto. NÉ il Neri, che nel momento era l'uomo responsabile, poteva nettamente decidere, in quanto preoccupato egli stesso del giudizio che su di lui dovevano pronunciare sia a Como che a Milano. Il processo contro il rag. Canali, che era stato dilazionato a "liberazione avvenuta", aveva al vertice questo punto: caduto prigioniero dei fascisti durante la lotta clandestina, il Neri avrebbe "parlato", accusando alcuni partigiani della brigata. Uomini interessati avevano speculato su ciò, settori ancora interessati avrebbero avuto buon gioco in seguito.
Ancora oggi, in verità, si discute circa la responsabilità dell'accusato; e se un gruppo - che ho ragione di ritenere in buona fede - rigetta assolutamente ogni capo d'accusa, altri persistono a non passare la pratica agli archivi. E' certo, ad ogni modo, che allora il Neri si confortò salomonicamente con i suoi "giudici", spezzando la lancia in favore di entrambe le parti.
Sentenza "giudiziosa,e ponderata", che smussava le divergenze sorte e sanava - almeno, a parere dei presenti - una situazione insostenibile: i denari, pensavano i compagni, erano del popolo, logico quindi che andassero al partito del popolo (come si autodefiniscono i comunisti). E così, tanto per cominciare, ecco giungere una sera il Neri alla Casa del Popolo di Como, portando un anticipo della spartizione alla Sezione Comasca del Partito Comunista Italiano.
Era una mossa astuta od ingenua, quella di, consegnare egli stesso la preda al Partito?
Propendiamo per la seconda tesi, considerando che questo viaggio aggiunse alla sua incerta posizione un elemento sfavorevole, uno dei tanti che più tardi doveva pesare sulla sentenza pronunciata nei suoi confronti e freddamente eseguita. Il Neri quindi, giunto alla "Casa di vetro" salì al secondo piano e consegnò al responsabile federale del P.C.I. parte di oro, gemme e preziosi. Era presente anche la Gianna (Giuseppina Tuissi) che portava con sÉ un forziere di metallo verniciato in azzurro cupo delle misure di 40 X 20 X 10 cm., rigonfio di gioie sciolte.
L'attenzione della persona che riceveva (il compagno Gorrieri) si fermò su una penna d'oro designata come proprietà di Mussolini, chiedendo al Neri se potesse prenderla. Ed ecco la risposta:
"Se ti sembra cosa onesta, puoi benissimo intascarla".
Una battuta, una frase: dimostrano il contrasto che esisteva fra i due, quel contrasto che doveva acuirsi nelle trattative successive per la divisione del bottino e sfociare... nel colpo alla nuca.
Ritorniamo a Dongo. Mentre la maggior parte del tesoro riposa ancora in mani sicure (?), cominciano a cadere le prime vittime; non parliamo dei fascisti - che venivano sommariamente giustiziati, e le cui salme, gettate nel lago, erano poi ricuperate la notte dai frati del Santuario della Madonna delle Lacrime, - ma degli stessi partigiani; nel caso specifico di uno, il "Lino", che tanta parte aveva avuto nella lotta clandestina e nei giorni dell'insurrezione. Abbiamo detto vittima; lo ripetiamo, anche se sinora si è andato raccontando che il Lino sia accidentalmente perito.
Ne hanno voluto fare di lui, giovane, aitante, deciso - anche se sanguinario - un eroe del Metastasio, attribuendogli una morte da perfetto suicida del tempo fascista: poggiando il mitra senza sicura, sarebbe accidentalmente partito quei colpo che già in tanti casi era "inavvertitamente sfuggito" pulendo l'arma.
Il "Lino" non si è ucciso: è stato ucciso. E' caduto vittima delle passioni in contrasto, e per il fatto che poteva turbare l'avvenire di alcune persone che, nell'ascendere alla ribalta della vita politica, vedevano all'orizzonte chissà quali castelli. Era inoltre un teste indiscreto. Unitamente al partigiano "Sandrino" (Cantoni Alessandro da Gera Lario) aveva vigilato Mussolini nella sosta a Giulino Mezzegra, dove l'ex duce trascorse l'ultima notte, attendendo l'arrivo degli esecutori, materiali della sentenza: Pietro (il famoso Michele Moretti dell'oro di Ponte del Passo) ed il Col. Valerio di cui si sono perdute le tracce e sulla cui persona la fantasia dei posteri brancola nell'incerto.
L'ordine di soppressione del "Lino" sembra sia stato dato da "Francesco" (Pietro Terzi e falso nome di Tosi Francesco), quello stesso che, dopo aver passato parecchi mesi più o meno alla macchia, è attualmente impiegato presso la Sepral di Como. Circa il modo nel quale il "Lino" è stato ucciso, taluni precisano che sarebbe caduto unitamente a sei giustiziati fascisti: egli predisponeva i morituri lungo il muro del Cimitero, quando gli uomini del plotone di esecuzione fecero scattare il mitra. Errore? Nessuno potrebbe sostenere questa tesi.
Sembra pure attendibile il particolare che il cadavere del partigiano sia stato caricato sulla barca degli uccisi e portato al "Poncett" per essere disperso nel lago; ripensando però che avrebbe potuto riaffiorare con le altre salme dei giustiziati, e che in tal modo si sarebbe compreso quanto si voleva tener nascosto, gli uccisori decisero di riportarlo a riva, architettando la versione del suicidio.
Comunque, "Lino" era un candidato alla morte, siccome designato - e vedremo in quale occasione - unitamente a tale Renzo (Bianchi Lorenzo di Cirimido) ad essere soppresso durante il trasporto dei valori della colonna al loro destino, in seguito ad una preordinata rapina armata del tesoro.
Fortunato? Se di fortuna si può parlare in questo caso, bisogna dire di sì: ebbe onoranze funebri, discorsi, degna sepoltura. Mentre altri, che mesti seguivano il funerale dell'ucciso, finiranno poi in ben altro modo ed in misteriose circostanze; e tra questi il Neri, la cui madre, nell'angoscia disperata dell'affetto, ricerca ancora e forse invano ricercherà i resti del figlio, che venne soppresso per una cautela indispensabile a quanti avevano "intascato" tesoro di Mussolini.

IL TESORO AFFLUISCE al PARTITO COMUNISTA

Chi erano i maggiori esponenti del Corpo Volontari della Libertà nella provincia di Como? Difficile stabilirlo senza toccare la suscettibilità di quanti, nelle varie zone, si erano creato un feudo ed imperavano. Tenendo presente le finalità della nostra indagine, soffermiamoci nei centri di Dongo e Como: nell'alto Lario troviamo Neri, Gianna, Francesco, mentre nella città si era installato Nicola, piazzatosi all'Albergo Posta con un formidabile apprestamento bellico all'esterno e nel vestibolo.
Nicola era poco conosciuto, perchÉ reduce dalla lotta partigiana sostenuta in Valtellina, dove sembra (a prestar fede ai suoi uomini) non abbia lasciato ottimo ricordo. Nicola, al secolo Gambaruti Dionigi, è il classico comunista che, dall'abito esteriore all'anima ed alla mentalità, ostenta fogge usi e costumi esotici, assimilati abilmente durante la sua permanenza all'estero. Dissentire dal suo punto di vista, asseriscono in Valtellina, significa esporsi al pericolo di essere eliminati, perchÉ "Nikj" - come usa farsi chiamare - ama sempre ripetere "Chi non è con me, è contro di me".
Una breve parentesi occorre pure per Dante Gorreri, a quei tempi responsabile Federale del P.C.I. di Como ed ora deputato comunista all'Assemblea Costituente, in quanto eletto nella circoscrizione di Parma. "Guglielmo" è uno di quei compagni che nella lotta clandestina caddero nelle mani delle brigate nere, ed a cui sembra siano state fatte sevizie: comunque un candidato alla morte spicciola, nella forma e con il sistema che più si presta a non creare martiri ed a disperderne le tracce. Per questo il federale Porta lo aveva affidato ad un "fedelissimo dell'idea repubblichina, il famoso Tucci, con il preciso incarico di finirlo sul Bisbino.
La fine della vicenda è nota: Guglielmo riuscì a fuggire in Svizzera, donde ritornò nell'aprile 1945.
Sin qui abbiamo fatto l'apologia dell’on. Gorreri; ma per la verità per quella verità che andiamo cercando, è doveroso precisare che "Guglielmo", a sentire i comaschi e gli stessi compagni, non se ne deve essere andato da Como con le mani troppo pulite.
Quanto alla faccenda del trafugamento del tesoro, bisogna aggiungere che egli non solo intervenne, ma costituì uno dei cervelli motori di tutta l'impalcatura, ed in particolare al momento in cui urgeva decidere sul bottino della colonna.
Ventiquattro ore di discussione fra i maggiori responsabili non avevano favorito il sorgere di una proposta concreta, mentre era necessario uscire dall'incerto, in quanto la situazione generale si avviava alla normalità. Il Nikj, che ben rappresentava Gorreri sul luogo del misfatto (Dongo), insisteva con ogni forma ed a ogni battuta nell'annunciare la meta prefissa: P.C.I. Ed in verità da questa linea non si poteva dissentire: era un ordine ricevuto, e tutti sappiamo come gli ordini che giungono dall'alto non si possano discutere. Difendendo questa tesi, anzi, Nikj si mostrò Indignato più che sorpreso del "sentimentalismo" del Neri; ed al caro Nicola possiamo dare nuovamente ragione: non era quello il luogo più propizio per lasciarsi andare a considerazioni di onestà, giustizia e legalità, con persone decise a tutto pur di raggiungere lo scopo.
Il giorno 28 aprile, però, la montagna riuscì a partorire... un grosso topo; rimaneva ora da decidere come, quando ed in quale luogo dovevano essere consegnati i valori, già assegnati - malgrado la vivace opposizione di Neri - alle due federazioni lombarde del Partito Comunista Italiano. La tesi del terzetto Francesco-Pietro-Niki era trionfata, avendo avuto alla fine un inatteso sostegno nelle richieste dei rappresentanti del C.V.L. di Milano, che pretendevano "la loro parte" per il partito (comunista) e non certo per recapitarla alla Banca d'Italia, a disposizione delle Autorità. Circa il modo per far giungere il tesoro al P.C.I., il terzetto proponeva di affidare il trasporto a due figure minori della brigata, eliminandole poi in conflitto, a coronamento di una ben architettata rapina: si raggiungeva così, in una sola azione, il duplice scopo di far partire il tesoro verso regolare destinazione (creando l'alibi per un'eventuale inchiesta) ed assicurare il tutto alla meta prefissa (P.C.I.).
Vivace, serrata e decisa fu l'opposizione del Neri e della Gianna a questa tesi, così come gli stessi poco prima avevano dissentito dal trasportare buona parte del bottino direttamente al "Guglielmo" di Como.
Alla fine, superata con un compromesso la burraschetta in famiglia, diverse macchine partivano alla volta di Colico e di Menaggio, con il carico non più conteso; per un'ironia del destino, i valori ritornavano alle città di partenza non più in sinfonia nera, ma in abito rosso. Francesco recapitò al P.C.I. di Milano circa 300 (diconsi trecento) milioni e 20.000 franchi svizzeri (dei 75.000 originari); da fonte attendibile si afferma che tale rag. Pelizzoni - abitante a Baggio ed intimo di Tuissi Cesare, fratello della Gianna - fu teste oculare alla consegna dell'ingente somma. Da parte sua, il "Carletto" (Maderna Carlo) recapitò alla Federazione di Como del P.C.I. circa 200 (duecento) milioni di lire e quattro valigie di cui si ignora il contenuto. A questa consegna erano presenti il Moretti, il Gorreri e il Cerutti. Al povero Carletto, ripensandoci, vengono le lacrime agli occhi. Racconta che non sapeva dove deporre i pacchi di biglietti da mille, ed a sua richiesta, additatagli una grande cassaforte del partito - alta circa due metri - gli venne detto: "Casciai lì" (mettili lì). Ultimata la fatica di sistemare tutto il carico entro il capace forziere, il Cerutti si accostò allo sportello e chiuse, mentre il Maderna, guardandosi le mani, si sentì mancare il respiro. Allo scatto della serratura, piombò improvviso il silenzio: i "ribelli" della montagna perchè pensavano forse che l'ingente somma (sebbene al sicuro) era ormai passata alla mercÉ dei politicanti; costoro, in quanto incerti se dover qualificare stupidi o fedelissimi compagni quelli della brigata "Clerici". Ma v'è di più: in quell'attimo di reciproco imbarazzo, il pensiero di tutti correva immediato a due compagni, a quelle sole persone che potevano ancora costituire un pericolo per l'ulteriore uso del tesoro. E sembrò al Carletto che gli occhi di uno dei presenti si fissassero nel vuoto: vedeva lontano, costui, mentre anelava formulando con il pensiero una sinistra determinazione.
La Gianna, dal canto suo, fece una seconda puntata a Como, recapitando al Mentasti (che era diventato la succursale del partito comunista) 37.000 franchi svizzeri: questo ha precisato una persona molto vicino alla Tuissi, confermando che Mentasti deve possedere le ricevute autentiche a firma Gorreri. Ed infine, eccoci ai documenti. Preziosi documenti che il "Carletto" ed il "biondino" prelevarono dalla Chiesa di Gera, trasportandoli sino al cortile del C.V.L. di Milano. Sopraggiunse Pietro (Michele Moretti) che lanciò l'idea di fare uno spoglio; ed è così, che spogliando i documenti, riuscirono a farli volatizzare. Sembra però assodato che siano finiti a Mosca, unitamente a quella rivoltella con la quale venne finito Mussolini.

SCOMPAIONO I TESTIMONI

Al mattino del 29 aprile 1945, il Comune di Dongo riassumeva l'aspetto di un paese turistico di secondo piano, d'uno di quei semplici, piatti, comunissimi paesi dei laghi alpini italiani. La campanella del Santuario Antoniano scandiva nuovamente i rintocchi garruli e lievi, la sirena delle officine Falk chiamava a raccolta i lavoratori della valle, l'acqua del lago, intrufolandosi nelle insenature, andava a sbattere sul molo, per diffondere la sua eterna canzone.
Tutto ridiventava normale, come normale può essere un luogo dove le persone hanno assistito ad una grossa disputa stando alla finestra, o nella quale hanno svolto una fugace apparizione come comparse: il massacro ed il furto, i punti vitali della tragedia, si vedevano lontani, nebulosi, indistinti.
Uomini e valori della colonna di Salò erano passati come una carovana da circo che, finita la rappresentazione, alza le tende e si trasferisce altrove.
Il tesoro di Mussolini era finito al Partito Comunista: ma il possesso di questi miliardi esigeva la soppressione dei testi che avrebbero potuto parlare e quindi porre l'Autorità Costituita sulle tracce dell'ingente somma. Parte dei testimoni erano ormai assoldati al partito gli altri avrebbero dovuto sparire dalla circolazione, senza lasciar tracce.
Diciamolo chiaro: un'azione del genere era difficile a compiersi, quasi impossibile a tener nascosta.
Occorreva quindi un alibi, per giustificare altrimenti il motivo della violenza. E per quanto riguarda il Neri era facile trovarlo: sufficiente riprendere in considerazione quel famoso processo istruito durante la lotta clandestina, e la cui sentenza era stata rinviata a "liberazione avvenuta".
Considerare ora gli estremi di questo processo, equivale a precisare le imputazioni e mettere in giusta luce la figura del rag. Canali.
Il Neri, come afferma nel lungo memoriale redatto a sua difesa, venne arrestato la notte del 7 gennaio 1945 e, sebbene sottoposto a torture, non disse nulla che potesse nuocere ad elementi liberi delle forze partigiane e nulla che potesse aggravare la situazione dei detenuti delle stesse formazioni, giudicandi o giudicabili dalle forze repubblichine. E questo particolare, di capitale importanza per gli sviluppi della vicenda, ci è stato confermato anche da chi aveva letto il verbale dell'interrogatorio subito dal Neri presso la Casa del fascio di Como.
Riuscito ad evadere abilmente la sera del 29 gennaio, riprese subito l'attività partigiana, sebbene fosse stato condannato a morte nel frattempo dal Comando Comunista di Milano, su proposta di Fabio (Vergani Pietro di Balsamo, vice Comandante delle formazioni Garibaldine di Milano). La sentenza, che non era stata eseguita, venne praticamente superata dal consenso unanime degli uomini della 52a Brigata, che riconobbero al Canali la qualifica di Capo di Stato Maggiore della brigata stessa. Questi i fatti.
Ma il processo al Neri, dopo che aveva espresso parere nettamente contrario alla destinazione poi fissata del tesoro di Mussolini, doveva essere assolutamente ripreso: era l'unico modo per condannare un innocente e soprattutto far sparire un testimonio ingombrante.
Inutile rifarci alla località dove venne discussa la causa. è sufficiente precisare che il tribunale era ristretto e che il Neri ebbe accusatori tenaci e difensori strenui, solamente sopraffatti, questi ultimi, dall'esibizione di falsi documenti d'accusa.
L'avversione del Fabio, il partito preso di Guglielmo - condiviso dal Morandi (l'allora Comandante dell'A.N.P.I. di Lecco e Como) - nonchÉ lo spirito di vendetta di "Nikj" - a sua volta condannato a morte nel periodo clandestino dal Neri, ebbero buon giuoco sull'opposta tesi espressa dalla "Gina" (Segretaria dell'A.N.P.I. di Como), dal Mentasti e dal Butti, tutti propensi all'assoluzione dell'imputato.
Un processo, come si vede, in famiglia, dove il pubblico ministero, sorvolando abilmente sui veri motivi per cui chiedeva la massima condanna, si appigliava all'accusa ingenerosa della incerta condotta insurrezionale dell'imputato, per "invocarne" la soppressione. Ma al tribunale stesso erano noti i propositi del Neri: il disgusto sul comportamento dei compagni, l'esternato proposito di recarsi a Milano per riferire, su Fabio, e soprattutto per precisare l'atteggiamento di ognuno circa la colossale appropriazione indebita dei valori della colonna.
Innocente o colpevole? Il tribunale comunista risolveva il dilemma in modo molto semplice: sopprimere l'accusato.
Chi portò la condanna del Neri sulle rive dell'Alto Lago e chi la eseguì?
É certo che Fabio la emise, è discusso se l'abbia recata "Nikj" nella seconda ed ultima apparizione in quel di Dongo, ma sembra molto attendibile che la condanna a morte passò nelle mani di Francesco (Pietro Terzi), il quale difese il giustiziando e dovrebbe conoscere la mano "fratricida" che lo finì.
Non seguiamo le contrastanti versioni che circolano. All'alba od al meriggio, con le ombre incerte del vespero o nel buio tetro della notte, non importa precisare: il 7 maggio 1945 il Neri spariva dallo scenario, per diventare un anello di quella catena di delitti, creata apposta per attardare qualunque operazione d'indagine.

SCOMPARE LA GIANNA

Soppresso il Neri, una sola persona poteva immediatamente preoccuparsi della sua assenza: la Gianna, legata allo scomparso dall'idea e dall'amicizia.
E corse, la povera ragazza, sino a Dongo, per sentire cos'era successo al Canale ed in che modo era finito. Sul posto, non deve aver appreso molti elementi (sembra infatti poco attendibile la voce che già sapesse chi aveva sparato il colpo alla nuca); vivamente preoccupata per le inutili ricerche, se ne ritornava anzi in bicicletta verso Como. Il suo animo non doveva essere certo calmo; ogni persona incontrata sulla via del ritorno, la legava alla speranza di ottenere qualche particolare, di sapere qualcosa che la aiutasse a far luce sul mistero.
A Brienno si imbattÉ in Hass (uomo della banda di Lince, di nazionalità svizzera), che pilotava una delle tante moto "bottino di guerra", recando sul seggiolino la Mariuccia Terzi, sorella del noto Francesco. Il terzetto sostò sulla provinciale di Brienno: la Mariuccia abbracciò e baciò la Gianna, scambi di convenevoli e di saluti, ma soprattutto fraterna assicurazione di muovere alla ricerca del Neri, invertendo immediatamente la rotta e puntando velocemente la moto verso Como. Quella volta il motore, in un primo tempo condotto a regime per rintracciare la Gianna, venne spinto velocemente verso il "covo" della banda, cui era stata demandata l'esecuzione dell'altra teste ingombrante.
I due, giungono affannati in via Bellinzona. Rapido scambio di idee sul da farsi con gli uomini della "Villa Triste" ed a seguito delle decisioni prese, i sicari prendono posto sulla stessa moto, con il preciso incarico di incontrare la Gianna e condurla verso il "preordinato" destino.
Chi erano gli esecutori dell'ordine?
Sembra molto attendibile che Maurizio Bernasconi, attualmente detenuto nelle carceri di S. Donnino, conducesse la moto; con lui, poteva esserci Natalino (giovane biondo e senza un dito) pure della banda Lince.
Costoro si incontrarono con la Gianna: chissà con quale prospettiva l'indussero a montare sulla moto! Ad ogni modo, vittima ed esecutori si avviarono verso Cernobbio, precisamente in località Pizzo. Dove la provinciale compie una serie di curve e contro-curve, il veicolo si fermò: tutti scesero e si incamminarono verso una straducola secondaria che porta sullo strapiombo. Lì, nel breve volgere di qualche minuto, appena preceduta da un grido (aiuto, mi ammazzano!), venne eseguita la sentenza e precipitato cadavere nel lago. Era il luogo più adatto per compiere e mascherare il delitto. Il giorno successivo, la Mariuccia (con lo zelo che contraddistingue gli esecutori di un ordine), recò la notizia a Dante Gorreri, che all'annuncio ne rimase sconvolto. Ad imperlare di freddo sudore la sua fronte, non fu la conferma del crimine, ma la preoccupazione dell'eco che avrebbe potuto suscitare. Un'indagine accurata, specie in relazione al luogo dove era avvenuto il misfatto, avrebbe messo alla luce altre gravi faccende che dovevano rimanere nascoste. Pensieroso delle conseguenze, il compagno "Guglielmo" commentò: "Almeno questo, non doveva succedere a Como!". Si avvalora pertanto la presunzione che anche a Como (forse nella stessa località) sia stato ucciso il Neri.

LA SOPPRESSIONE DEGLI ALTRI TESTIMONI "INGOMBRANTI"

Gli uccisori dell'Anna - dattilografa della brigata - Il "biondino" ed il suo confidente

Il tesoro di Mussolini "dorme" in luogo sicuro, Neri e Gianna sono scomparsi dalla circolazione. Ora è il turno di Anna Maria Bianchi che - a quanto pare - ha poche interferenze con il tesoro e nessuna (specie per quanto riguarda la sua fine) con il Lince.
Nei giorni insurrezionali prendeva possesso della caserma di via Borgovico 1 il gruppo di Lince, gruppo - a quanto pare - composto di partigiani raccogliticci dell'ultima ora: segretaria del distaccamento era Anna Maria Bianchi. Il primo maggio ecco giungere a Como la vera 52a Brigata, quella - per intenderci - che aveva come nerbo i partigiani scesi dalle montagne del comasco; la 52a si insedia in via Borgovico, al comando di Pietro (Michele Moretti) e Pierino (Dell'Era Erminio). Il gruppo di Lince alza le tende, sosta alcuni giorni presso il famoso caffè Rebecchi, per prendere poi stabile dimora presso la "Villa Triste" di via Bellinzona. Ma la segretaria, l'Anna, è legata ai vasti cameroni delle ex-scuole "Ratti", e vi rimane anche con i nuovi venuti. Il passato della ragazza non era eccessivamente "buono", ma nondimeno Pietro e Pierino chiudono un occhio e la tengono alle dipendenze sino a quando un ordine di Nicola, che sospettava la donna complice della morte di "Joric", la fa trasferire al raggruppamento "Orazio" del Lince. è qui che la raggiunge l'ordine di morte. Per questo un giorno viene fatta trasferire dal P.C.I., a Dongo, apparentemente quale segretaria del raggruppamento partigiano, praticamente in istato di arresto.
Una sera, mentre Anna Maria si trova in un caffè di Dongo, una "topolino" si ferma alla porta. Scendono due uomini ed una donna, che invitano la "designata" a salire in macchina con loro per una passeggiata notturna. La fine potete immaginarla: durante il viaggio Anna viene uccisa ed il suo corpo, gettato nel lago, è ricuperato il giorno successivo, pare nei pressi di Acquaseria.
Chi erano gli esecutori della sentenza?
Sulla topolino si trovavano: Nando, che circola ora liberamente, Natalino Negri - ricercato dalla polizia perchÉ coimputato nella rapina dei quadri di Cernobbio - che va facendo giornalmente belle passeggiate in "Galleria" a Milano; quanto alla donna, si tratta di Mirka, ben conosciuta fra i partigiani di Como.

La FAMIGLIA della SCOMPARSA VIENE SUBITO AVVERTITA

La famiglia della scomparsa viene subito avvertita. Il padre parte immediatamente per l'Alto Lago, ma non riesce a raggiungere Rezzonico; stando alla versione più precisa, sembra non abbia superato la punta di Pizzo; ed il "bolognese" potrebbe dirci per qual motivo. Quanto al biondino (Antonio Pugliese), la sua morte deve ritenersi - secondo taluni - accidentale: entrando in barca a Colico (unitamente a Fogliarese) avrebbe inavvertitamente urtato una bomba a mano che si trovava nella tasca interna della giacca, giacente sul fondo della barca. Ma la cosa, conveniamone, non è chiara: una "balilla" non può uccidere nello scoppio una persona ferendone gravemente un'altra. Il biondino, a quanto pare, era al corrente di molte cose: aveva tra l'altro casualmente captato una "confidenza" di Moretti, mentre questi annunciava in termini espliciti che la missione a Roma si era felicemente conclusa.
A quale missione alludeva "Pietro"? - è ormai accertato che lo stesso si sia recato a Roma, con persona molto influente, consegnando tutto il bottino - trasferito dapprima a Como e Milano - presso la sede del P.C.I. di via Nazionale. All'organizzazione militare del partito comunista sarebbe quindi finito tutto o quasi tutto il tesoro di Mussolini.
La vicenda è quasi completa, il quadro di questa catena di furti e delitti, delimitato. Sono scomparsi Neri e Gianna. E' sparito il biondino; ma dopo di lui, altri dovevano essere eliminati. Erano le persone che, mediante confidenze, avevano potuto sbrogliare l'arruffata matassa.
Cosa pensano, ad esempio, i comunisti di quei quattro colpi di rivoltella sparati pochi mesi or sono all'indirizzo del loro compagno Prof. Merzagora, riuscito poi a far perdere le tracce?
- Una manovra delle forze reazionarie - potrebbe essere la risposta; risposta, in verità, un po' evasiva, per quanti sanno come il Merzagora (candidato comunista nelle elezioni amministrative di Como) fosse al corrente di tutta la vicenda, e per questo invitato, pochi giorni prima dell'attentato, a "dimenticare" immediatamente quanto aveva appreso. Tutti i protagonisti della bella impresa si sono minacciati l'un l'altro di morte a più riprese (durante i casuali incontri), perchÉ il segreto potesse finire... nella tomba. Ma a lungo andare, col passar dei mesi, qualcuno ha "cantato". Ed è in base a queste precisazioni (fornite da alcuni protagonisti di cui, per ovvie ragioni, non si può fare il nome) che si è potuto ricostruire passo passo la mostruosa impalcatura eretta dai Comunisti. La Polizia sa tutte queste cose e tace. C'è un mandato di cattura a carico di Pietro (Michele Moretti) e nessuno pensa di eseguirlo, anche se il ricercato compie continue apparizioni nei luoghi del misfatto. L'Autorità inquirente attende ordini. Ma in verità, a ripensarci bene questa attesa con le armi al piede si protrae già da oltre un anno. Esattamente dal giorno in cui l'ex Questore Grassi inviava al C.L.N. Provinciale (14 agosto 1945) una lettera precisa in cui era esplicitamente detto che l'Autorità di P.S. conosceva il luogo dove si trovava occultato il tesoro. Mancava solo l'ordine di andarlo a prendere. Ed in un anno e mezzo, per quanto a Como siano mutate parecchie cose, l'ordine non è giunto: o forse è partito da Roma, sperdendosi poi in qualche meandro buio, per ingiallire con altre pratiche sulle quali una mano nervosa ha scritto "archivio". Vogliamo proprio che dorma?

FINE